Premessa. Sull’orrore, il silenzio e lo scrivere
Sono rimasto a lungo, dopo i fatti del 7 ottobre, in uno stato di confusione e disperazione. Stavo male, non ero lucido mi sentivo impotente e strattonato da sentimenti contrastanti. Fare silenzio è stato necessario. Cercare di mettere ordine al caos nel silenzio.
A novembre ho cominciato a fissare per iscritto il tumulto dei miei pensieri. Quelle righe vergate in fretta senza quasi rileggerle erano più che altro il tentativo di chiarirmi ciò che nel silenzio cercavo di afferrare: contraddizioni, brandelli di ragionamento, percorsi mentali che non sfociassero in vicoli ciechi.
C’è sempre qualcuno che spunta dalla schiuma della rete per farmi sapere che di quello che penso io al mondo intero non frega niente. Lo so, certo: “Chi mi credo di essere?” è una domanda che mi sono sempre fatto, fin da quando ero un bambino. Ma sono anche uno scrittore, e la parola scritta è il mio modo di parlare, il mio modo di essere e di stare nel mondo.
Sullo scrivere ci sono alcune cose che ho imparato, in tutti questi lunghi anni di apprendistato, che hanno a che vedere con la responsabilità:
1) bisogna sempre cercare di essere massimamente onesti nei contenuti
2) bisogna sempre cercare di essere massimamente precisi nella forma
3) finché non è possibile rispettare queste due condizioni, è meglio tacere
Quello che segue è il risultato di questo tentativo.
È uno scritto frammentario, probabilmente molto difettoso. Ma credo di aver assolto almeno alle due condizioni di cui sopra: sono stato onesto e preciso nei limiti delle mie capacità.
1. Scilla e Cariddi
Ci sono due scogli enormi, si ergono come torri aguzze tra i marosi, fanno da monito e da minaccia: impossibile aggirarli.
Gli attacchi di Hamas del 7 e 8 ottobre 2023 hanno fatto 1200 morti, di cui tre quarti civili. Esiste una mole enorme di materiale audiovisivo che prova la brutalità sconvolgente dell’aggressione. Voglio essere chiaro: su questo crimine non esiste alcuno spazio per il negazionismo.
Da quei giorni, più di duecento persone sono prigioniere di Hamas. Tra questi, ci sono stati e ci sono ancora vecchi e bambini.
Tutti gli ostaggi devono tornare a casa.
Io credo che anche chi si schiera nella maniera più netta con la causa palestinese non possa non far sua questa richiesta.
L’attacco dell’esercito israeliano contro i criminali di Hamas si è trasformato in una terribile punizione collettiva. Al 30 dicembre 2023, si stima che a Gaza siano morte quasi 22 000 persone, per lo più donne e minori. Sono cifre riportate dal Guardian, ma si basano su un solido lavoro investigativo e poggiano su fonti valide.
Mentre scrivo, il computo dei morti si appresta a sforare il tetto dei 25 mila. Quello dei feriti e dei mutilati è più di due volte superiore.
Questi non sono solo numeri, sono persone.
Io credo che anche chi si schiera nella maniera più netta con Israele non possa non fare i conti con questa mattanza.
2. Memorie apocrife
Ricordo le manifestazioni imponenti in tutta Europa e in America, undici o dodici anni fa, a supporto delle primavere arabe, compagni e compagne a migliaia in corteo a Milano, Roma, Napoli, a fianco delle compagne e dei compagni egiziani, tunisini e libici, e poi contro la sanguinaria repressione di Assad e accanto alla ribellione siriana… Le bandiere della Siria libera con le tre stelline rosse che sventolavano a centinaia in quella folla, mentre il poderoso sound system dei centri sociali sparava a mille decibel Freedom dei Rage Against The Machine…
Ovviamente non è mai successo.
Ricordo invece bandiere siriane assadiane penzolare in mezzo a quelle palestinesi nel gruppetto di antisionisti sfegatati che urlavano “Assassini, assassini, avete le mani sporche di sangue, figli di troia” al passaggio della Brigata ebraica, Milano, 25 aprile 2018.
E ricordo una vignetta del brasiliano Carlos Latuff, disegnatore molto amato dai rossobruni, in cui un imponente orso con i colori della bandiera russa bracca i terroristi dell’Isis. Poi si è scoperto che il vero orso era la Wagner e che furono i mercenari di Prigožin a entrare a Palmira, mentre l’aviazione russa bombardava i civili nelle aree controllate dai ribelli e Assad finiva di massacrarli con armi chimiche, salvo poi attribuire la colpa alle vittime.
Ricordo – ma forse la mia memoria è fallace – che le sole proteste si levarono quando Trump minacciò di tirare qualche missile dissuasivo. Ciò che effettivamente avvenne una volta, facendo una vittima (un soldato siriano). Ricordo che allora, per qualche giorno, la mia bacheca social fu tutta un fiorire di appelli alla pace e di post indignati contro i guerrafondai a stelle e strisce.
Ricordo nel 2016 il fiume di manifestanti sul London Bridge e per le strade di New York, a Parigi, Berlino, Roma, contro la strage di civili che si consumava ad Aleppo per mano dei russi e di Assad…
Ma ovviamente anche questo non è mai successo. Ricordo invece che nel 2016 Aleppo – la popolazione civile intrappolata ad Aleppo – era vittima di pesantissimi bombardamenti da parte delle forze governative di Assad e i loro alleati russi, ma all’epoca i compagni antimperialisti non avevano problemi a dire che la colpa era dell’ISIS, che la città era una loro roccaforte, che era tutta colpa loro, che usavano i civili come scudi umani.
«Nel sangue pagato dalla popolazione civile si consuma la deriva jihadista della maggior parte dell’opposizione siriana», mi disse allora uno di quei compagni, uno molto guevarista, molto comunista, molto antiamericano. Ne seguì una discussione a distanza più simile a un litigio, che interruppi quando mi fu detto: «Ad Aleppo, se stiamo ad ascoltare le cronache dei filoamericani, ci sono più ospedali che civili».
La sera del 17 ottobre, quelle stesse persone erano già graniticamente convinte che fosse stato Israele a bombardare l’ospedale Al-Ahli di Gaza.
Cosa risponderebbero se qualcuno ritorcesse loro contro quella frase così sprezzante: «A Gaza, se stiamo ad ascoltare le cronache dei pro-Palestina, ci sono più ospedali che civili»?
Ricordo nella primavera del 2022 le oceaniche manifestazioni in sostegno al popolo ucraino ferocemente attaccato dalla Russia di Putin, la solidarietà tributata da tutti gli antifascisti alla resistenza ucraina contro l’invasore, l’unanime sdegno per gli espliciti intenti genocidari che l’autocrate del Cremlino esprimeva senza remore in discorsi pubblici negli stadi pieni di sudditi adoranti…
Ma no, nemmeno questo è successo.
Evidentemente la parola genocidio torna buona solo quando c’è di mezzo Israele. E la parola resistenza, che siamo così restii a concedere agli ucraini, se applicata ai macellai del 7 ottobre non ci procura grandi disagi.
Aleppo 2016, Mariupol’ 2022, Gaza 2023. Chissà perché questa disparità di indignazione, di reazione, di coinvolgimento.
3. I massacri di Schrödinger
C’è chi si batte per ristabilire la verità sui “presunti” massacri del 7 ottobre: nessun bambino è stato ucciso, né tanto meno decapitato, e più della metà delle vittime sono militari israeliani, non bisogna cadere nella trappola della propaganda israeliana.
Voglia Dio che sia così, mi viene da rispondere. Voglia Dio che nessun bambino sia stato ucciso, né il 7 ottobre in Israele né nelle settimane successive a Gaza (eppure, in questo secondo caso, non so bene perché, quelle stesse persone prendono per buone le cifre fornite da Hamas: forse ritengono che Hamas non voglia o non riesca a fare propaganda).
Io però so, io lo sento, che i bambini sono morti veramente. E questa è l’unica cosa che voglio dire: non voglio perdere altro tempo e sprecare altre parole sui negazionisti.
C’è chi mette in dubbio che il 7 ottobre ci siano stati stupri. Chi ventila l’ipotesi che siano stati una montatura israeliana. Chi tende a ridimensionarli: Sì, magari qualcosa è successo, ma si sa, la propaganda…
(Per quel che può valere la mia minuscola esperienza personale, sono stato rampognato per aver condiviso un articolo di una storica israeliana, Tamar Herzig, sullo stupro come arma di guerra, perché così facendo mi sarei reso indirettamente complice morale dei carnefici israeliani, usando in maniera strumentale i “presunti” stupri per nascondere dietro una cortina fumogena di propaganda sionista il massacro dei palestinesi.)
C’è chi sostiene che il dossier del New York Times sulle violenze del 7 ottobre sia basato su illazioni non confermate.
Ben venga un’indagine internazionale che appuri la verità. Ma mi chiedo: come abbiamo reagito, due anni fa, quando sono arrivate le prime immagini delle stragi russe in Ucraina? Chi ha cominciato a macinare dubbi, a parlare di montatura, di propaganda?
Poi mi chiedo se sia immaginabile pensare che, caso unico in tutta la storia, i miliziani di Hamas non abbiano fatto ricorso allo stupro come arma di guerra.
Infine smetto di farmi domande, perché nella mia mente torna ossessivamente il video di una ragazza bionda dalle gambe insanguinate.
4. La ragazza insanguinata
Il 7 ottobre sono rimasto traumatizzato. Eppure ero al sicuro, lontano dal buco nero.
Ero a casa dei miei. Il televisore era acceso. Stavamo chiacchierando del più e del meno senza badare a quello che scorreva sullo schermo. Il filmato mi è arrivato di colpo, come un pugno in faccia. Una ragazza bionda, con i calzoni insanguinati, strattonata e trascinata per i capelli da maschi armati forse gonfi di captagon.
Probabilmente sono un sempliciotto, che tende a dimenticare il contesto e il sottotesto, che si fa abbindolare dalle immagini forti. Ma in quel momento mi si è spezzato qualcosa dentro.
Ho sentito, più che pensato, che nulla al mondo poteva giustificare o relativizzare quell’orrore. Nessun sopruso, nessuna oppressione, niente, niente, niente.
So che queste associazioni emotive immediate sfuggono al controllo della ragione, ti colpiscono alla pancia, ti azzerano il comprendonio e ti lasciano senza fiato.
Perciò sono rimasto ammutolito, in preda a uno sbigottimento e a un’angoscia che non riuscivo a razionalizzare o a verbalizzare.
Poi sono cominciati i pensieri torbidi, i pensieri parassiti, i pensieri brutti e persino i pensieri cattivi, ingiusti, feroci.
L’unica cosa dignitosa che potevo fare, davanti a quella ridda di pensieri intossicanti, era fare silenzio, anche in me, e lasciare che la polvere del tumulto si posasse.
E così ho chiuso per molti giorni la mia mente a ogni forma di analisi, comprensione del testo, descrizione del contesto, inquadramento storico o geopolitico.
Nella mia ingenuità, pensavo che questo bisogno di una pausa di silenzio, che fosse per decenza, lutto, sgomento o pura cortesia, fosse condiviso.
Invece, già la sera di quello stesso giorno, ho cominciato a veder gente che pubblicava foto di repertorio di bambini arabi uccisi, che scriveva «Io NON sto con Israele».
La sera del 7 ottobre! La mattina dell’8! A sangue ancora caldo!
5. L’11 settembre malattia cronica del XXI secolo
O del biasimo preventivo delle vittime presenti in nome delle vittime future.
C’è sempre qualcuno che, con l’aria consumata del militante che la sa lunga, ti dice a macerie ancora fumanti Ora vedrai che le vittime di oggi ridiventeranno domani i soliti carnefici.
Lui è furbo, non gliela si fa. Si porta avanti. Coerentemente con la sua capacità divinatoria, la sera dell’11 settembre 2001 prepara gli slogan antiamericani e la sera del 7 ottobre 2023 prepara gli slogan antisionisti.
Forse io – che a macerie fumanti mi limito a piangere per le vittime di oggi – sono ingenuo e magari in fondo più o meno blandamente connivente con i carnefici americani e sionisti (non lo sono, ma mi è stato detto). Ma non mi stancherò mai di dire che questa incapacità di tenere chiusa la bocca per qualche ora, questa mancanza di umanità, questa imperdonabile indelicatezza, questo cedimento così prevedibile al vecchio e miserabile meccanismo pavloviano già visto all’opera l’11 settembre 2001, sono per me fonte di disgusto.
Ricordo ciò che scrissi all’indomani dell’11 settembre, in una lunga e impubblicabile lettera che spedii al Manifesto, in preda alla disperazione e alla rabbia:
«I comunicati di forum e associazioni che in questi giorni, riferendosi agli attentati negli Stati Uniti e alla possibile reazione bellica americana, condannano “la guerra e ogni logica di terrore”. Bene, cosa c’è da eccepire, qui? A prima vista niente: come si può, essendo sinceramente democratici e di sinistra, non concordare con questa affermazione? Però, se si legge più attentamente, si scoprono i trucchi del linguaggio deformante, che non dice la realtà, ma la deforma e la ricrea: si condanna prima la guerra – una guerra che al limite appartiene al futuro, che è stata per ora solo minacciata dal governo americano, ma che ancora non esiste – e poi il “terrore” (si badi bene: non il “terrorismo”), che in questo caso è un fatto, è successo effettivamente».
Per me, anche come scrittore, i trucchi del linguaggio deformante sono il male.
L’11 settembre, il trauma mai veramente superato della mia generazione.
Con quell’eterno ritornello – “Se la sono cercata” – sempre nelle orecchie.
Erano servi dell’imperialismo yankee e delle multinazionali, erano ricchi, viziati e newyorkesi, un po’ se la sono cercata.
Ballavano mezzi nudi la tekno a un tiro di schioppo dalla miseria e dal dolore, erano giovani, ricchi e viziati, un po’ se la sono cercata.
Dicono che il 7 ottobre molti palestinesi abbiano gioito. Io non so se sia stato così, se e quanto il giubilo sia stato diffuso. Ma quel giubilo, che pure mi impressiona e mi turba, mi disturba molto meno del garrulo entusiasmo con cui tanti miei compagni di strada da culo al caldo accolsero il crollo delle Twin Towers, di quei “Stasera stappo lo spumante” sentiti dire troppe volte in quei giorni da gente che non era cresciuta nel Cile degli anni settanta o nei territori occupati, da gente pasciuta e cresciuta nel caldo ventre dell’Occidente, che non aveva il minimo diritto di abdicare alla pietà.
Poi, però, a sangue ancora caldo, tocca leggere comunicati come quelli dei Giovani Palestinesi in Italia, che salutavano lo “sbalorditivo successo”. I giovani palestinesi d’Italia. Non di Gaza o della Cisgiordania. D’Italia.
8 ottobre: «Nella giornata di ieri la resistenza di Gaza ha scritto una nuova pagina della storia palestinese. L’operazione “Alluvione di Al Aqsa” che ha portato alla distruzione del muro di filo spinato che imprigiona Gaza da 17 anni, alla presa di decine di colonie sioniste, al sequestro di più di 50 soldati, al sequestro di armamenti nemici e alla distruzione di carri armati e mitragliatrici, si inserisce in un quadro di lotta di liberazione e decolonizzazione della Palestina».
15 ottobre: «Sabato scorso abbiamo assistito a una operazione di liberazione senza precedenti. Le forze della resistenza palestinese hanno attaccato i territori occupati da Israele fin dal ’48, procedendo a liberare importanti aree di territorio. Hanno mostrato a tutto il mondo, ma soprattutto ai palestinesi stessi, che il colonialismo sionista crollerà. Hanno dimostrato a noi tutti che la libertà è, nonostante tutto, a porta di mano».
Resistenza, liberazione, libertà. Chi si è rifiutato di attribuire questi termini alla lotta per la vita degli ucraini come li trova applicati agli autori del massacro del 7 ottobre? Gli sembra che a loro calzino meglio?
Cosa vuoi che me ne importi se anche in tutte le case di Gaza c’è davvero (ma forse sarebbe meglio dire “c’era”) un calendario con la cartina della Palestina senza Israele, come sosteneva un post razzista molto condiviso dai fiancheggiatori di Netanyahu nelle scorse settimane? Non me ne frega niente. Non andrò mai a fare la morale a chi muore sotto le bombe, a fargli lezioni di bon ton, a spiegargli cosa deve o non deve fare per non schifare noi civilizzati col culo al caldo. La mia anima sta con lui o con lei, accanto al frigo dove quel calendario stava appeso o forse no. Così come stava a Mariupol’ accucciata in un angolo tra i calcinacci accanto al vecchio e al bambino terrorizzati, alla ragazza braccata dai soldati russi, al combattente nel mirino dei cecchini – che esibisse o no la toppa del Reggimento Azov.
Ma a chi sta con il culo al caldo non abbuonerò mai la mancanza di pietà.
6. Le foto strappate
La mattina del 24 novembre, mentre ero al lavoro, la mia compagna mi ha mandato questa mail.
«Oggi sono ripassata dal Castello Sforzesco e ho visto che molte foto degli ostaggi erano state strappate. Tornando a casa senza volerlo ho riflettuto (si sa, quando si muovono i piedi si muove tutto) e ho pensato che non sarei mai riuscita a strappare per nessun motivo la foto della faccia di un bambino con le finestre in mezzo ai denti che si è trovato in quella situazione, rapito e con i genitori ammazzati. Per farlo non bastano l’aggressività e le convinzioni politiche, ho capito in modo davvero lampante che ci vuole anche dell’odio e da dove possa realmente (e intendo realmente) venire quell’odio io non sono al momento in grado di capirlo. E non è neanche una questione di ragioni e di torti. Se vedessi appesi i visi dei bambini palestinesi morti nei bombardamenti israeliani non riuscirei parimenti a strapparli, neanche dopo aver letto la descrizione delle atrocità commesse nell’attacco. Quindi ammetto con me stessa che qui c’è davvero qualcosa che non capisco, e mi arrendo. Quanto a queste povere ragazze mutilate e smembrate e stuprate, penso che a confronto quello che ha subito Cristo sulla croce rischi di assomigliare a una favoletta per bambini.»
7. Domande, contraddizioni, limiti invalicabili
Infine è successo quello che continua a succedere: la distruzione di Gaza, migliaia di morti – e non mi si venga a dire che erano tutti militanti di Hamas.
Colpire Hamas è legittimo? Sì, secondo me è legittimo e anzi necessario.
Bombardare, fosse anche chirurgicamente, una città sovrappopolata, è un crimine di guerra? Sì.
Qual è la strategia del governo israeliano (se di strategia si può parlare, e non so se si possa)?
Cessate il fuoco: l’ho detto anch’io, nel momento in cui più grande era lo strazio.
Ma se per assurdo domani l’esercito israeliano si ritirasse, Hamas e la Jihad smetterebbero di lanciare razzi su Israele? Quanti razzi sparati da Gaza quotidianamente continuano a piovere sui civili israeliani?
Ma se anche Israele spianasse Gaza (come effettivamente sta facendo), otterrebbe forse pace e sicurezza?
Quanto pesa il sangue degli innocenti sulla bilancia della giustizia e dell’autodifesa?
Come fare a sormontare questa contraddizione? Non lo so. Non ci riesco.
Ma c’è un limite oltre il quale la mia coscienza non può andare. Ed è accettare l’uccisione di migliaia di persone per lo più incolpevoli in nome di qualsiasi ragione, fosse anche sulla carta la più umana e morale e ragionevole.
«E se la sofferenza de bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto», fa dire Dostoevskij a Ivan Karamazov.
Leggo che, se metto sullo stesso piano i bambini ebrei barbaramente trucidati dai nazisti e i bambini tedeschi morti durante i bombardamenti alleati, allora significa che sono in bancarotta morale.
Può darsi. Mentre cerco di capire se sono in bancarotta morale o no, ma soprattutto se questo aut aut abbia un senso (ahimè non ho studiato filosofia morale e temo che mi manchino gli strumenti necessari), mi siedo accanto ai bambini: sia quelli ebrei sia quelli ariani.
8. La faccia pietrificata di Wael Al-Dahdouh
Poi ho visto la faccia pietrificata di Wael Al-Dahdouh, giornalista palestinese di Al Jazeera, classe 1970, quasi un mio coetaneo. Ha appena scoperto, in diretta, che la sua famiglia è stata sterminata da un bombardamento israeliano. Ha appena perso la moglie, una figlia di sette anni, un figlio di quindici, un nipote. È la fine di ottobre. Il 7 gennaio perderà un altro figlio, più grande, giornalista anche lui, sempre per un bombardamento israeliano.
La faccia pietrificata di Wael Al-Dahdouh non mi esce dalla mente. Sullo schermo vedo me stesso. Istintivamente immagino cosa sta succedendo dietro quel viso, eppure, nello stesso tempo, non riesco nemmeno lontanamente a immaginarlo. Percepisco in modo confuso che, al suo posto, forse, cercherei di afferrare la prima arma a portata di mano e la rivolgerei contro di me.
9. I manichei che ti urlano “O con noi o traditore”
Intanto, senza spargimento di sangue ma con grande sperpero di parole e immagini, si affrontano sui social ogni giorno quelli delle bandiere palestinesi e quelli delle bandiere israeliane.
Molti dei primi non hanno speso una parola per ciò che si è consumato il 7 ottobre. In quei giorni, solo gattini, corsi di yoga e teatro, aperitivi all’aperto. Poi, con l’assedio di Gaza, si sono dati alla condivisione compulsiva di strazianti immagini di bambini palestinesi generate con l’intelligenza artificiale. Ma si sa che non sono antisemiti, solo antisionisti.
Molti dei secondi, dispensatori compulsivi di marchi d’infamia antisemita, hanno riabilitato le più bieche teorie sulla sostituzione etnica, con corredo di vignette islamofobe che un tempo vedevo comparire solo sui volantini leghisti o nei forum di suprematisti bianchi. Ma si sa che non sono razzisti, lo fanno solo per difendere i valori della democrazia e della libertà contro quei subumani…
10. L’antisemitismo non esiste, è solo antisionismo
Se maneggi con disinvoltura – magari limitandoti a qualche meme idiota, come se si trattasse di un gioco – il paragone tra la svastica e la stella di David, se te la cavi a buon mercato accontentandoti della solita vignetta sugli israeliani uguali alla Wehrmacht, stai compiendo un gesto certamente cretino e probabilmente antisemita, anche se credi in tutta coscienza di essere solo un antisionista (quale che sia il significato che attribuisci a questa parola-prezzemolo). La tua eventuale buona fede non giustifica una cosa che esorbita dai confini del cattivo gusto.
E più cerchi di convincermi che non è vero, che l’antisemitismo non esiste più se non in qualche frangia ultra-minoritaria e ininfluente di sociopatici neonazisti, più la mia pancia – prima ancora che il mio intelletto – si convince che l’antisemitismo è più vivo che mai. Tra i destroidi, tra i cittadini europei figli di seconda o terza generazione dell’immigrazione dai paesi musulmani, tra gli antimperialisti che si beano del loro immaginario staliniano e tra persone insospettabili, come un virus incistato in qualche organo interno e sempre pronto a slatentizzarsi.
E affiora anche dove meno te lo aspetteresti.
Mi permetto di riportare un breve passo di un piccolo libro che scrissi anni fa, Diario di un’insurrezione (Effigie 2012). Tratta di un fatterello risalente – ancora – al periodo immediatamente successivo all’11 settembre. Per la precisione una vignetta satirica che riprendeva una leggenda metropolitana assai diffusa dopo l’11 settembre, secondo cui migliaia di ebrei che lavoravano nelle Twin Towers non si erano presentati in ufficio la mattina degli attentati. Il sottinteso della diceria era ovvio: perché sapevano, perché il tutto era un complotto della CIA, del Mossad ecc.
«Sono i primi d’ottobre. Come ogni settimana, andando al lavoro passo in edicola a comprare il nuovo numero di Carta, la rivista che fa da crocevia e dazebao per il movimento. La sfoglio velocemente, mentre il metrò mi porta in Duomo. C’è un lungo intervento del subcomandante Marcos. S’intitola “La IV guerra mondiale è cominciata”. Nelle due pagine che precedono lo scritto di Marcos incontro alcune vignette. Si tratta de Il cuore, un settimanale satirico – chiamato chissà perché quasi come un suo più illustre predecessore – che non riesce a uscire in edicola ed è costretto a farsi ospitare a turno, in uno spazio ridotto, sulle riviste “amiche” di sinistra e di movimento. Quella settimana tocca per l’appunto a Carta (che, in una noticina, specifica: “Alle pagine 46 e 47 troverete due pagine di satira che non c’entrano niente col resto, come se fossero state prese di peso da un altro giornale. Infatti, è così”).
Una vignetta in basso a sinistra, a pagina 47, mi colpisce in modo particolare. Mostra le caricature di due ebrei: occhi vuoti e malvagi, dentatura da orco, naso adunco, barbetta caprina appuntita sul mento, boccolo a cavatappi e kippah. In pratica l’archetipo del giudeo subdolo, crudele e somaticamente degenerato secondo i canoni tradizionali dell’iconografia antisemita. Sopra, una didascalia recita: “Più di 4 mila impiegati alle twintowers [sic], ebrei americani o di origine israeliana, la mattina dell’11 settembre non si sono misteriosamente recati al lavoro… COME MAI???”.
Nel balloon, l’ebreo con i denti da orco dice: “Guardi, noi si doveva circoincidere [sic] il pupo e…”.
L’immagine viene risolta con questa battuta: “Circoincidenze, eh?”.»
Gli ebrei e gli israeliani. I due termini, si sa, da noi sono spesso intercambiabili.
Succedeva venti e passa anni fa, certo. Molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti. O no?
11. La felpa azzurra
Era pomeriggio e tornavo a piedi da piazza Duomo dopo il corteo milanese del 25 aprile.
Mentre camminavo, avevo davanti a me una coppia sulla quarantina, lei jeans e scarpe da tennis, lui giacca di velluto un po’ stazzonata, insomma potevano sembrare due newyorkesi a spasso per Manhattan dopo il cineforum. In mezzo a loro camminava – o meglio saltellava – un ragazzino sui dodici o tredici anni. Erano reduci come me dal corteo, l’ho capito perché a un certo punto hanno gettato in un cestino un volantino appallottolato uguale a quello che mi aveva piantato in mano il militante di non so più quale gruppuscolo aderente alla Quarta Internazionale.
Abbiamo camminato così, io dietro e loro davanti, per un buon quarto d’ora, e per tutto quel tempo ho spiato oziosamente quella famigliola. Mi stavano istintivamente simpatici. Avevano una camminata sciolta e chiacchieravano allegramente, lo intuivo dalle espressioni divertite che intravedevo ogni tanto quando si voltavano a guardarsi, così che potevo scorgerne le facce di profilo, il taglio delle bocche atteggiato a un sorriso. Anche il linguaggio del corpo era rivelatorio: rilassato, elastico.
È stata quella simpatia istintiva, all’inizio, a far sì che mi si stampassero nella memoria. A volte mi capita, quando incrocio una persona sconosciuta anche solo per poco e per qualche imperscrutabile motivo mi colpisce. Ricordo ancora gente intravista in via Torino nel novembre del 1992, ragazze con l’acne e la calzamaglia arcobaleno, uomini di mezza età con la chierica e le orecchie a sventola… Chissà perché proprio loro?
Poi è successo che il ragazzino si è sfilato la felpa e se l’è legata alla cintola. Era una felpa blu con stampati sopra il simbolo e il nome dell’Hashomer Hatzair, l’organizzazione giovanile internazionale ispirata al sionismo socialista. Gli “scout” ebraici, come si dice per semplificare.
Mi sono detto: Senz’altro hanno sfilato nello spezzone della Brigata Ebraica.
Eravamo più o meno all’altezza del Largo. L’ultimo tratto del Corso la felpa dell’Hashomer l’ha percorso sventolando baldanzosa a ogni falcata e saltello del ragazzino.
All’incrocio tra il viale alberato e la piazza dei tram, le nostre strade si sono divise.
Oggi non riesco a smettere di pensare alla spigliatezza con cui quel ragazzino esibiva la sua felpa. Alla noncuranza, alla naturalezza con cui sfoggiava quella scritta e quel simbolo.
Succedeva meno di sei mesi prima del massacro del 7 ottobre.
12. Islamofobi? Ma no, solo difensori della civiltà
Hanno grande successo tra i “proud friends of Israel” le immagini di fedeli musulmani accucciati sui marciapiedi, in preghiera, o di una folla in abiti da beduini che inveisce con aria inferocita – non è dato sapere contro cosa, la foto non ha didascalie, ma ovviamente non ce n’è bisogno: sarà senz’altro contro l’Occidente democratico, civilizzato e laico.
Tra loro persino i deliri paranoici e islamofobi sull’Eurabia improvvisamente tornano buoni, come se non fossero l’opposto speculare e identico dei vecchi deliri nazisti sulla piovra giudaica mondiale. Persino le più assurde e ributtanti teorie cospirazioniste sul piano Kalergi e spazzatura simile.
A loro vorrei chiedere: “Dov’era l’IDF il 7 ottobre?”. A difendere i coloni, il loro diritto a perseguitare i palestinesi della Cisgiordania, a sputargli addosso, a sparargli addosso, a mettere a ferro e fuoco i loro villaggi. Ecco dov’era. A difendere quel bacino elettorale dell’estrema destra israeliana che è come un cancro metastatico e che da decenni, nutrito dalla destra fascista israeliana, divora case, territori, vite e ogni possibilità di pacificazione.
Sì, quando sento le ignobili parole di certi esponenti della destra fascista israeliana, quando li sento ventilare l’atomica come piccoli Medvedev qualunque, vorrei poterli vomitare dalla mia bocca.
I sostenitori di Israele sono raggruppamento eterogeneo al cui interno si trovano posizioni spesso lontanissime. Alcuni di loro, da mesi, martellano quotidianamente sulla disumanità e la ferocia di Hamas (il che è fuor di dubbio) spesso finendo per attribuire la colpa dei massacri all’intero popolo palestinese e dunque de facto esprimendo un concetto di puro e semplice razzismo.
Ma non dicono una parola sull’espansione delle colonie illegali, sull’occupazione delle terre palestinesi in Cisgiordania, sulle violenze dei coloni.
Mi piacerebbe capire cosa pensano dell’involuzione autoritaria dello Stato di Israele. Negano che ci sia, o che sia un’involuzione? La vedono? La approvano? È per loro un male minore o addirittura l’unica salvezza di Israele?
Che limite danno al concetto di autodifesa? Cosa sono disposti ad accettare in suo nome?
Quanta legittimità ha il concetto di autodifesa preventiva?
Quanto alimenta il circolo vizioso della violenza?
L’unica democrazia del Medioriente. D’accordo. Ma non basta dire “democrazia” perché magicamente tutto diventi lecito e giusto. Ci sono democrazie che votano leggi per deportare gli immigrati. Ci sono democrazie che mandano democraticamente al potere uomini, partiti e movimenti autoritari.
I governi israeliani di diverso colore politico che nel corso degli anni hanno più o meno apertamente promosso la progressiva e massiccia colonizzazione delle terre palestinesi sono stati eletti democraticamente, avendo spesso nei loro programmi elettorali l’ampliamento e il riconoscimento degli insediamenti illegali. Cosa dovremmo dedurne, quindi? Che tutto il popolo israeliano è complice, come a parti rovesciate stanno dicendo dei palestinesi?
Guardo un servizio giornalistico sul rabbino israeliano Arik Ascherman, premio Gandhi per la Pace 2011, che aiuta i contadini palestinesi della Cisgiordania contro gli abusi dei coloni. Pacifista, progressista. Più volte malmenato dai coloni, gira con il giubbotto antiproiettile perché rischia ogni volta la vita.
Vorrei sapere: anche lui è il classico ebreo che odia sé stesso?
Poi leggo la biografia di Bezalel Smotrich, ministro del governo Netanyahu: organizzatore di iniziative pubbliche contro il movimento LGBT, sostenitore dell’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dice di sé: “Sono un fascista omofobo”. Molto religioso, si oppone alla creazione di uno Stato palestinese e nega l’esistenza del popolo palestinese.
Decisamente una perfetta epitome dell’Occidente laico, democratico e civilizzato.
13. La ragazza col velo
Conosco per via indiretta una ragazza, figlia di immigrati di fede musulmana. Presto compirà sedici anni. Studia, ma avendo molti fratelli più piccoli le capita spesso di fargli da seconda madre. Indossa il velo, è credente, magari lo è con fervore o magari invece come lo ero io quando andavo all’oratorio, per consuetudine e tradizione, chissà. Sogna di viaggiare, di avere una vita piena, libera, diversamente da molte delle sue coetanee italiane – per le quali è poco più che un fantasma – è interessata da ciò che succede nel mondo.
Ogni volta che sento parlare di arabi o di musulmani (i due termini, si sa, da noi sono spesso intercambiabili) come di un branco di mentecatti fanatici, di bestie ignoranti bloccate in un medioevo mentale – discorsi che un tempo ingenuamente credevo appannaggio dei fascioleghisti e che invece ho scoperto essere diffusi anche tra i laici illuminati illuministi democratici progressisti – penso a quella ragazza.
14. Contro l’internazionale della morte, con l’internazionale della vita
Io sono al sicuro nella mia porzione di mondo. Non sono né israeliano né palestinese. Che diritto ho di giudicare la rabbia e l’odio degli uni e degli altri?
Forse posso soltanto cercare di recuperare lucidità, di informarmi, di ragionare con calma, visto che la mia posizione privilegiata me lo permette.
Posso tentare di individuare dei punti fermi nel mio stare disagevolmente in questa specie di terremoto globale che tutto scuote e scardina e rovescia.
Non metterò il mio corpo al servizio di manifestazioni dalla solidarietà selettiva o intermittente.
Non mi mescolerò con chi non ha speso una parola di dolore per i civili massacrati il 7 ottobre.
Non siederò al fianco di chi nega, relativizza, giustifica o esalta quell’orrore.
Non avrò nulla a che fare con chi festeggia i bombardamenti sulle città e sulle case dei palestinesi.
Non mi unirò a chi sotto la maschera dei valori occidentali chiama a nuove crociate.
Non accetterò alcuna idea razzista o suprematista.
Cercherò sempre di non farmi fottere dal contesto al punto tale da non vedere più il testo.
Cercherò di studiare.
Cercherò di ascoltare.
Cercherò di essere sempre onesto nell’ammettere le mie contraddizioni e i miei limiti.
Cercherò di far sì che le mie contraddizioni non diventino una giustificazione all’omertà, all’ignavia, all’opportunismo.
Starò sempre con chi subisce la violenza.
Con chi subisce violenza eppure si ostina a non perdere la propria umanità.
Con chi costruisce ponti.
Con chi non usa il “ma”.
Con chi pratica l’igiene della parola, che è anche igiene del pensiero.
Con i civili israeliani.
Con i civili palestinesi.
Con gli ostaggi di Hamas.
Con Wael Al-Dahdouh.
Con chi in Israele si batte contro la sua deriva teocratica, reazionaria e fascista.
Con chi in Palestina si batte per un futuro democratico e libero dal doppio giogo dell’occupazione e dell’oscurantismo religioso.
Con gli ebrei che ovunque nel mondo rivivono l’incubo della persecuzione.
Con gli arabi e con i musulmani che in Occidente vivono e lavorano – spesso come schiavi salariati – subendo disprezzo e odio razzista.
Non starò con Netanyahu, con i suoi coloni e i suoi ministri genocidari.
Non starò con Hamas e la Jihad islamica, con l’Iran e Nasrallah.
Non starò con i criminali psicopatici che reggono le sorti del mondo.
Contro l’internazionale della morte, con l’internazionale della vita.
15. Palestina libera, ma libera davvero
Palestina libera, ma libera davvero.
Libera dall’occupazione. Dai fascisti israeliani. Dai coloni che rubano terre, picchiano, sparano, ammazzano.
Libera dalla morte per bombe e cecchini.
Libera dal dover piangere i suoi figli. Il 70 per cento dei gazawi uccisi in questi due mesi sono donne e bambini. Fossero anche lo zero virgola sette, sarebbe lo stesso inaccettabile.
Libera da Hamas, dalla Jihad islamica, da Hezbollah. Libera da tutti i suoi orribili e feroci occupanti interni.
Libera dai suoi presunti amici, odiatori di ebrei e lecchini di tiranni.
Libera di scegliere il proprio destino autonomamente e democraticamente.
Così libera da poter finanche, un giorno, fare i conti con i propri errori e i propri orrori – come molte nazioni che si credono civili non hanno mai fatto.
Palestina libera.
Libera anche la gente di Israele. Libera dalla paura dei pogrom e dei razzi. Libera dai pazzi sanguinari che l’hanno spinta nel baratro.
E liberi anche gli ostaggi del 7 ottobre. Che tornino a casa, dai loro cari, e che possano un giorno guarire dalle ferite del corpo e dell’anima.
Possano tutti coloro che sono caduti innocenti in questa mostruosa guerra riposare in pace nel paradiso a cui anelavano.
(Novembre 2023 – gennaio 2024)