Liberi tutti

Le atroci sofferenze della popolazione di Gaza non hanno giustificazione. Capisco che si possa essere rimasti traumatizzati dal massacro del 7 ottobre, e che quell’orrore abbia richiesto tempo e silenzio per essere metabolizzato (se mai è possibile metabolizzare un simile orrore). Ma tacere del massacro di civili palestinesi che ne è seguito non è più accettabile.

Non sono ebreo (anche se nei rami veneti della mia famiglia e di quella della mia compagna ci sono tracce semileggendarie di una lontana origine ebraica), ma ho sempre amato la multiforme cultura ebraica. È una parte fondamentale della mia formazione intellettuale.

Tuttavia oggi, di fronte a ciò che il governo israeliano sta infliggendo a milioni di civili palestinesi, mi domando come si possa non provare rabbia, disgusto e disperazione.

L’antisemitismo di una parte – di una parte! – del “fronte” filo-palestinese è ributtante, tanto più in quanto ipocritamente mascherato da antisionismo. Trovo rivoltante ogni paragone con il nazismo. Sarò sempre al fianco degli ebrei laddove siano in pericolo e perseguitati. Ma questo non mi impedisce oggi di dire: Non in mio nome state massacrando i palestinesi. Non in mio nome.

È un crimine, un crimine, un crimine.

Trovo altrettanto ributtante il suprematismo razzista e fascista di una parte del “fronte” filo-israeliano. E trovo rivoltante la strumentalizzazione della Shoah.

E facciamola finita con gli stomachevoli ritornelli ‐ “è colpa di Hamas, i civili sono complici, i tunnel i tunnel i tunnel”… Facciamola finita con la scusa della difesa della democrazia o dei valori occidentali. Quale Occidente? Quali valori? Quelli che sono morti ammazzati in mezzo alla folla che cercava un tozzo di pane, o nei corpi dei vecchi e dei bambini sepolti sotto le macerie delle case bombardate?

Non passa giorno che io non pensi alla sorte degli ostaggi catturati dai fanatici assassini di hamas e della jihad. Mi domando tuttavia se ai ministri israeliani stia altrettanto a cuore.

Non sto con Hamas. Sto con i civili palestinesi. Sto con gli ebrei, israeliani e non, che con coraggio si oppongono alla pazzia sanguinaria della destra israeliana. Sto con la Palestina libera.

Sì, voglio dire: Palestina libera, e con queste due parole immaginare non la distruzione di Israele, ma una Palestina sovrana e libera da ogni oppressione, esterna e interna.

Chissà che una Palestina libera non significhi anche, finalmente, un Israele libero dai pericoli, ma anche dai suoi incubi e dalla sua follia distruttrice e autodistruttiva…

Il male commesso non può essere redento. Il sangue versato non torna nelle vene. Il 7 ottobre come il 29 febbraio. Cessate il fuoco. Libertà per gli ostaggi. Libertà per il popolo palestinese.

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La colpa è delle vittime

C’è bisogno che ripeta cosa penso di Hamas? Che io debba specificare che non so cosa darei per vedere quell’aberrante organizzazione terroristica punita per tutto quello che ha inflitto sia agli israeliani sia ai palestinesi, per vederla cancellata per sempre dalla faccia della terra? Che non mi sfuggono le enormi responsabilità che essa ha in ciò che è accaduto e sta accadendo?

È davvero ancora necessaria questa premessa?

C’è bisogno che ripeta ciò che ho scritto nei mesi scorsi? Degli incubi che ho fatto – io, che pure non sono né un ebreo né un israeliano e non ho parenti o amici laggiù – dopo la strage del 7 ottobre?

Forse sì, perché c’è almeno una cosa su cui ho sorvolato. La generale mancanza di pietas nei confronti delle vittime del massacro da parte di molte persone che si fregiano di essere progressiste, radicali, orgogliosamente di sinistra, mi ha devastato.

Quanti distinguo pelosi, quanto antisemitismo ipocritamente dissimulato sotto il velo sottilissimo della solidarietà con i palestinesi oppressi, quanto schifo ho sperimentato nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre.

Ricordo in particolare una frase-meme oscena che ricorreva di continuo nelle vomitate social di tanti parolai del bene e della giustizia: “Verranno a chiederti di condannare prima Hamas”. Ogni volta che la leggevo, capivo con una chiarezza perfino accecante che lo scrivente stava certificando il suo più o meno disimulato compiacimento per l’eroica azione della resistenza palestinese o la sua totale indifferenza nei confronti delle vittime.

Io non pretenderò mai che chi giace sotto le bombe si dissoci da Hamas, come del resto non mi sarei mai sognato di fare l’esame di tasso democratico ai difensori ucraini di Azovstal. Ma non credo che riuscirò mai a metabolizzare questa smaccata adesione al male nel nome del vero o presunto bene da parte di gente seduta davanti a una tastiera o a uno smartphone, in Italia, al sicuro.

*

Tuttavia, le cose non si sono fermate all’8 ottobre. È iniziato il massacro dei civili palestinesi. Quasi 30 000 mila nel momento in cui scrivo queste righe.

Qualcuno mi ha contestato l’espressione “punizione collettiva”. La quarta convenzione di Ginevra menziona esplicitamente la punizione collettiva come crimine di guerra. Cos’è, di fatto, quanto Israele sta infliggendo alla popolazione di Gaza da mesi?

I sostenitori di Israele fanno ogni giorno la conta dei tunnel, sembrano ossessionati dai tunnel scavati da Hamas, sembra quasi dalle loro parole che ogni tunnel scoperto nel sottosuolo di Gaza controbilanci la quantità giornaliera di civili palestinesi ammazzati sulla superficie di Gaza.

Se menzioni quei morti ammazzati, se provi a dare loro un nome e un volto, proprio come è stato fatto all’indomani del 7 ottobre con le vittime del pogrom, ti rispondono con immagini di tunnel. Ti rispondono con foto in bianco e nero del Muftì di Gerusalemme. Ti rispondono che la colpa delle decine di migliaia di vittime palestinesi è di Hamas.

Ma dire che la responsabilità ultima del massacro di palestinesi innocenti è di Hamas è un trucco mentale e retorico tale quale quello opposto e speculare in cui mi sono imbattuto più volte a ridosso del 7 ottobre: “Va da sé che la responsabilità del massacro è di Netanyahu”.

Non è così. È una verità dimezzata, che è quasi peggio di una menzogna intera, perché come minimo manca un “anche”. Perché la responsabilità ricade sempre in primo luogo su chi decide di premere il grilletto o di affondare la lama.

Dire che la colpa del massacro compiuto da Hamas è degli israeliani non è molto diverso dal dire che le migliaia di palestinesi innocenti uccisi o mutilati dall’IDF sono colpa –in fondo – degli palestinesi.

È un modo appena più dissimulato di far ricadere la responsabilità sulle vittime anziché sui carnefici.

Si prende una parte e la si fa passare per il tutto.

La colpa del massacro è degli israeliani, la colpa del massacro è dei palestinesi. Tutto torna, i propri bias sono salvi ed è questo che conta. Il resto – i morti innocenti da una parte e dall’altra – sono solo il pegno da pagare alla necessità storica. Vittime collaterali che come particelle elementari appaiono e scompaiono nell’infinitesima frazione di tempo necessaria a formulare una generica premessa di civile dispiacere.

La colpa è delle vittime.

*

“Sì, ma Israele non aveva altre possibilità…”

Io penso che non sia vero che Israele non avesse altre possibilità. Io penso che ve ne fossero.

Anche se penso che sì, effettivamente quelle altre possibilità passassero per una strada stretta, così stretta che nella storia forse nessuno ha mai avuto il coraggio e la lungimiranza di imboccare.

Io penso – mi ostino a pensare – che esistesse la possibilità di compiere un atto di riparazione del mondo, anziché una strage che resta una strage per quante giustificazioni finanche sensatissime possiamo attribuirle. E che non è solo immorale per via delle vittime innocenti, ma anche controproducente per la sorte degli ostaggi, per la sicurezza degli stessi cittadini israeliani e degli ebrei in tutto il mondo.

Anche se penso che sì, forse effettivamente ci sarebbe voluto, per riuscire anche solo a immaginare di imboccare quella strada stretta, un Israele diverso da quel tetro coacervo di identitarismo nazionalista ultra-reazionario fatto di fanatismo religioso e parafascismo politico che ha progressivamente divorato ogni altra possibilità, ogni altra alternativa.

*

Dici: Perché pretendi tutto questo da Israele e non chiedi ad Hamas di cessare il lancio di razzi e rilasciare gli ostaggi?

Perché nella mia infinita stupidità continuo a credere che Israele abbia in sé ancora la capacità di discernere tra la saggezza e la disumanizzazione. Da quegli altri non mi aspetto nulla.

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Gen X 3 – Red Falcon

Vuoi vedere che tutto discende
dal mancato possesso di Red Falcon

ai vecchi tempi quando i Micronauti
spaccavano i denti alle vetrine?

Che tutto ’sto bordello è nato
intorno alla burella di quel lutto?

D’autre part c’est sur le vide
qu’on fabrique sa propre vie

(9 maggio 2020)

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Il mio giorno della memoria

Ho grande rispetto per il Giorno della Memoria. La data scelta, il giorno della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ha una valenza simbolica enorme: è il momento della presa di coscienza dell’orrore, la scoperta del baratro scavato dal male nazifascista nel cuore del Novecento. Perciò mi addolora vedere come sempre più spesso venga strumentalizzata, in maniera opposta e speculare, da chi ne fa un lasciapassare e una forma di ricatto morale per giustificare ogni sopruso e da chi dissimula il proprio antisemitismo dietro cause che, per quanto giuste, diventano putride e malvage nelle sue mani. Mi sembrano entrambi squallidi modi di sputare sulle vittime di quell’orrore.

Da qualche anno, però, ho scelto di adottare un’altra data e di farne il mio personale giorno della memoria. Il 19 aprile, anniversario dell’inizio della rivolta del Ghetto di Varsavia.
Mi piace che sia la data di un’insurrezione. Un’insurrezione contro l’orrore. Un’insurrezione contra spem, come accade sempre quando si combatte contro il male. Una rivolta radicale contro il male estremo. È il momento della scelta di lottare – disperatamente – per la vita e contro la morte. Per il bene e contro il male. Un fiore giallo, effimero ma bellissimo, spuntato nel baratro, nel cuore del Novecento. Mi colpisce e mi commuove che a guidare la rivolta fossero due giovanissimi ebrei di idee politiche molto diverse e finanche opposte: Mordechai Anielewicz, sionista socialista, e Marek Edelman, socialista bundista. Loro, e tutti quelli che caddero combattendo nel ghetto di Varsavia, sono i miei eroi. Ogni anno, ad aprile, ne parlo in casa, cerco di scrivere qualcosa, torno a leggere libri e testimonianze. È il mio modo di onorare e mantenere viva la memoria.

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La somma delle sofferenze

Premessa. Sull’orrore, il silenzio e lo scrivere

Sono rimasto a lungo, dopo i fatti del 7 ottobre, in uno stato di confusione e disperazione. Stavo male, non ero lucido mi sentivo impotente e strattonato da sentimenti contrastanti. Fare silenzio è stato necessario. Cercare di mettere ordine al caos nel silenzio.

A novembre ho cominciato a fissare per iscritto il tumulto dei miei pensieri. Quelle righe vergate in fretta senza quasi rileggerle erano più che altro il tentativo di chiarirmi ciò che nel silenzio cercavo di afferrare: contraddizioni, brandelli di ragionamento, percorsi mentali che non sfociassero in vicoli ciechi.

C’è sempre qualcuno che spunta dalla schiuma della rete per farmi sapere che di quello che penso io al mondo intero non frega niente. Lo so, certo: “Chi mi credo di essere?” è una domanda che mi sono sempre fatto, fin da quando ero un bambino. Ma sono anche uno scrittore, e la parola scritta è il mio modo di parlare, il mio modo di essere e di stare nel mondo.

Sullo scrivere ci sono alcune cose che ho imparato, in tutti questi lunghi anni di apprendistato, che hanno a che vedere con la responsabilità:
1) bisogna sempre cercare di essere massimamente onesti nei contenuti
2) bisogna sempre cercare di essere massimamente precisi nella forma
3) finché non è possibile rispettare queste due condizioni, è meglio tacere

Quello che segue è il risultato di questo tentativo.
È uno scritto frammentario, probabilmente molto difettoso. Ma credo di aver assolto almeno alle due condizioni di cui sopra: sono stato onesto e preciso nei limiti delle mie capacità.

1. Scilla e Cariddi

Ci sono due scogli enormi, si ergono come torri aguzze tra i marosi, fanno da monito e da minaccia: impossibile aggirarli.

Gli attacchi di Hamas del 7 e 8 ottobre 2023 hanno fatto 1200 morti, di cui tre quarti civili. Esiste una mole enorme di materiale audiovisivo che prova la brutalità sconvolgente dell’aggressione. Voglio essere chiaro: su questo crimine non esiste alcuno spazio per il negazionismo.
Da quei giorni, più di duecento persone sono prigioniere di Hamas. Tra questi, ci sono stati e ci sono ancora vecchi e bambini.
Tutti gli ostaggi devono tornare a casa.
Io credo che anche chi si schiera nella maniera più netta con la causa palestinese non possa non far sua questa richiesta.

L’attacco dell’esercito israeliano contro i criminali di Hamas si è trasformato in una terribile punizione collettiva. Al 30 dicembre 2023, si stima che a Gaza siano morte quasi 22 000 persone, per lo più donne e minori. Sono cifre riportate dal Guardian, ma si basano su un solido lavoro investigativo e poggiano su fonti valide.
Mentre scrivo, il computo dei morti si appresta a sforare il tetto dei 25 mila. Quello dei feriti e dei mutilati è più di due volte superiore.
Questi non sono solo numeri, sono persone.
Io credo che anche chi si schiera nella maniera più netta con Israele non possa non fare i conti con questa mattanza.

2. Memorie apocrife

Ricordo le manifestazioni imponenti in tutta Europa e in America, undici o dodici anni fa, a supporto delle primavere arabe, compagni e compagne a migliaia in corteo a Milano, Roma, Napoli, a fianco delle compagne e dei compagni egiziani, tunisini e libici, e poi contro la sanguinaria repressione di Assad e accanto alla ribellione siriana… Le bandiere della Siria libera con le tre stelline rosse che sventolavano a centinaia in quella folla, mentre il poderoso sound system dei centri sociali sparava a mille decibel Freedom dei Rage Against The Machine…
Ovviamente non è mai successo.
Ricordo invece bandiere siriane assadiane penzolare in mezzo a quelle palestinesi nel gruppetto di antisionisti sfegatati che urlavano “Assassini, assassini, avete le mani sporche di sangue, figli di troia” al passaggio della Brigata ebraica, Milano, 25 aprile 2018.
E ricordo una vignetta del brasiliano Carlos Latuff, disegnatore molto amato dai rossobruni, in cui un imponente orso con i colori della bandiera russa bracca i terroristi dell’Isis. Poi si è scoperto che il vero orso era la Wagner e che furono i mercenari di Prigožin a entrare a Palmira, mentre l’aviazione russa bombardava i civili nelle aree controllate dai ribelli e Assad finiva di massacrarli con armi chimiche, salvo poi attribuire la colpa alle vittime.
Ricordo – ma forse la mia memoria è fallace – che le sole proteste si levarono quando Trump minacciò di tirare qualche missile dissuasivo. Ciò che effettivamente avvenne una volta, facendo una vittima (un soldato siriano). Ricordo che allora, per qualche giorno, la mia bacheca social fu tutta un fiorire di appelli alla pace e di post indignati contro i guerrafondai a stelle e strisce.

Ricordo nel 2016 il fiume di manifestanti sul London Bridge e per le strade di New York, a Parigi, Berlino, Roma, contro la strage di civili che si consumava ad Aleppo per mano dei russi e di Assad…
Ma ovviamente anche questo non è mai successo. Ricordo invece che nel 2016 Aleppo – la popolazione civile intrappolata ad Aleppo – era vittima di pesantissimi bombardamenti da parte delle forze governative di Assad e i loro alleati russi, ma all’epoca i compagni antimperialisti non avevano problemi a dire che la colpa era dell’ISIS, che la città era una loro roccaforte, che era tutta colpa loro, che usavano i civili come scudi umani.
«Nel sangue pagato dalla popolazione civile si consuma la deriva jihadista della maggior parte dell’opposizione siriana», mi disse allora uno di quei compagni, uno molto guevarista, molto comunista, molto antiamericano. Ne seguì una discussione a distanza più simile a un litigio, che interruppi quando mi fu detto: «Ad Aleppo, se stiamo ad ascoltare le cronache dei filoamericani, ci sono più ospedali che civili».
La sera del 17 ottobre, quelle stesse persone erano già graniticamente convinte che fosse stato Israele a bombardare l’ospedale Al-Ahli di Gaza.
Cosa risponderebbero se qualcuno ritorcesse loro contro quella frase così sprezzante: «A Gaza, se stiamo ad ascoltare le cronache dei pro-Palestina, ci sono più ospedali che civili»?

Ricordo nella primavera del 2022 le oceaniche manifestazioni in sostegno al popolo ucraino ferocemente attaccato dalla Russia di Putin, la solidarietà tributata da tutti gli antifascisti alla resistenza ucraina contro l’invasore, l’unanime sdegno per gli espliciti intenti genocidari che l’autocrate del Cremlino esprimeva senza remore in discorsi pubblici negli stadi pieni di sudditi adoranti…
Ma no, nemmeno questo è successo.
Evidentemente la parola genocidio torna buona solo quando c’è di mezzo Israele. E la parola resistenza, che siamo così restii a concedere agli ucraini, se applicata ai macellai del 7 ottobre non ci procura grandi disagi.

Aleppo 2016, Mariupol’ 2022, Gaza 2023. Chissà perché questa disparità di indignazione, di reazione, di coinvolgimento.

3. I massacri di Schrödinger

C’è chi si batte per ristabilire la verità sui “presunti” massacri del 7 ottobre: nessun bambino è stato ucciso, né tanto meno decapitato, e più della metà delle vittime sono militari israeliani, non bisogna cadere nella trappola della propaganda israeliana.
Voglia Dio che sia così, mi viene da rispondere. Voglia Dio che nessun bambino sia stato ucciso, né il 7 ottobre in Israele né nelle settimane successive a Gaza (eppure, in questo secondo caso, non so bene perché, quelle stesse persone prendono per buone le cifre fornite da Hamas: forse ritengono che Hamas non voglia o non riesca a fare propaganda).
Io però so, io lo sento, che i bambini sono morti veramente. E questa è l’unica cosa che voglio dire: non voglio perdere altro tempo e sprecare altre parole sui negazionisti.

C’è chi mette in dubbio che il 7 ottobre ci siano stati stupri. Chi ventila l’ipotesi che siano stati una montatura israeliana. Chi tende a ridimensionarli: Sì, magari qualcosa è successo, ma si sa, la propaganda…
(Per quel che può valere la mia minuscola esperienza personale, sono stato rampognato per aver condiviso un articolo di una storica israeliana, Tamar Herzig, sullo stupro come arma di guerra, perché così facendo mi sarei reso indirettamente complice morale dei carnefici israeliani, usando in maniera strumentale i “presunti” stupri per nascondere dietro una cortina fumogena di propaganda sionista il massacro dei palestinesi.)

C’è chi sostiene che il dossier del New York Times sulle violenze del 7 ottobre sia basato su illazioni non confermate.
Ben venga un’indagine internazionale che appuri la verità. Ma mi chiedo: come abbiamo reagito, due anni fa, quando sono arrivate le prime immagini delle stragi russe in Ucraina? Chi ha cominciato a macinare dubbi, a parlare di montatura, di propaganda?

Poi mi chiedo se sia immaginabile pensare che, caso unico in tutta la storia, i miliziani di Hamas non abbiano fatto ricorso allo stupro come arma di guerra.

Infine smetto di farmi domande, perché nella mia mente torna ossessivamente il video di una ragazza bionda dalle gambe insanguinate.

4. La ragazza insanguinata

Il 7 ottobre sono rimasto traumatizzato. Eppure ero al sicuro, lontano dal buco nero.
Ero a casa dei miei. Il televisore era acceso. Stavamo chiacchierando del più e del meno senza badare a quello che scorreva sullo schermo. Il filmato mi è arrivato di colpo, come un pugno in faccia. Una ragazza bionda, con i calzoni insanguinati, strattonata e trascinata per i capelli da maschi armati forse gonfi di captagon.
Probabilmente sono un sempliciotto, che tende a dimenticare il contesto e il sottotesto, che si fa abbindolare dalle immagini forti. Ma in quel momento mi si è spezzato qualcosa dentro.
Ho sentito, più che pensato, che nulla al mondo poteva giustificare o relativizzare quell’orrore. Nessun sopruso, nessuna oppressione, niente, niente, niente.
So che queste associazioni emotive immediate sfuggono al controllo della ragione, ti colpiscono alla pancia, ti azzerano il comprendonio e ti lasciano senza fiato.
Perciò sono rimasto ammutolito, in preda a uno sbigottimento e a un’angoscia che non riuscivo a razionalizzare o a verbalizzare.
Poi sono cominciati i pensieri torbidi, i pensieri parassiti, i pensieri brutti e persino i pensieri cattivi, ingiusti, feroci.
L’unica cosa dignitosa che potevo fare, davanti a quella ridda di pensieri intossicanti, era fare silenzio, anche in me, e lasciare che la polvere del tumulto si posasse.
E così ho chiuso per molti giorni la mia mente a ogni forma di analisi, comprensione del testo, descrizione del contesto, inquadramento storico o geopolitico.

Nella mia ingenuità, pensavo che questo bisogno di una pausa di silenzio, che fosse per decenza, lutto, sgomento o pura cortesia, fosse condiviso.
Invece, già la sera di quello stesso giorno, ho cominciato a veder gente che pubblicava foto di repertorio di bambini arabi uccisi, che scriveva «Io NON sto con Israele».
La sera del 7 ottobre! La mattina dell’8! A sangue ancora caldo!

5. L’11 settembre malattia cronica del XXI secolo

O del biasimo preventivo delle vittime presenti in nome delle vittime future.

C’è sempre qualcuno che, con l’aria consumata del militante che la sa lunga, ti dice a macerie ancora fumanti Ora vedrai che le vittime di oggi ridiventeranno domani i soliti carnefici.

Lui è furbo, non gliela si fa. Si porta avanti. Coerentemente con la sua capacità divinatoria, la sera dell’11 settembre 2001 prepara gli slogan antiamericani e la sera del 7 ottobre 2023 prepara gli slogan antisionisti.

Forse io – che a macerie fumanti mi limito a piangere per le vittime di oggi – sono ingenuo e magari in fondo più o meno blandamente connivente con i carnefici americani e sionisti (non lo sono, ma mi è stato detto). Ma non mi stancherò mai di dire che questa incapacità di tenere chiusa la bocca per qualche ora, questa mancanza di umanità, questa imperdonabile indelicatezza, questo cedimento così prevedibile al vecchio e miserabile meccanismo pavloviano già visto all’opera l’11 settembre 2001, sono per me fonte di disgusto.

Ricordo ciò che scrissi all’indomani dell’11 settembre, in una lunga e impubblicabile lettera che spedii al Manifesto, in preda alla disperazione e alla rabbia:
«I comunicati di forum e associazioni che in questi giorni, riferendosi agli attentati negli Stati Uniti e alla possibile reazione bellica americana, condannano “la guerra e ogni logica di terrore”. Bene, cosa c’è da eccepire, qui? A prima vista niente: come si può, essendo sinceramente democratici e di sinistra, non concordare con questa affermazione? Però, se si legge più attentamente, si scoprono i trucchi del linguaggio deformante, che non dice la realtà, ma la deforma e la ricrea: si condanna prima la guerra – una guerra che al limite appartiene al futuro, che è stata per ora solo minacciata dal governo americano, ma che ancora non esiste – e poi il “terrore” (si badi bene: non il “terrorismo”), che in questo caso è un fatto, è successo effettivamente».

Per me, anche come scrittore, i trucchi del linguaggio deformante sono il male.

L’11 settembre, il trauma mai veramente superato della mia generazione.
Con quell’eterno ritornello – “Se la sono cercata” – sempre nelle orecchie.
Erano servi dell’imperialismo yankee e delle multinazionali, erano ricchi, viziati e newyorkesi, un po’ se la sono cercata.
Ballavano mezzi nudi la tekno a un tiro di schioppo dalla miseria e dal dolore, erano giovani, ricchi e viziati, un po’ se la sono cercata.

Dicono che il 7 ottobre molti palestinesi abbiano gioito. Io non so se sia stato così, se e quanto il giubilo sia stato diffuso. Ma quel giubilo, che pure mi impressiona e mi turba, mi disturba molto meno del garrulo entusiasmo con cui tanti miei compagni di strada da culo al caldo accolsero il crollo delle Twin Towers, di quei “Stasera stappo lo spumante” sentiti dire troppe volte in quei giorni da gente che non era cresciuta nel Cile degli anni settanta o nei territori occupati, da gente pasciuta e cresciuta nel caldo ventre dell’Occidente, che non aveva il minimo diritto di abdicare alla pietà.

Poi, però, a sangue ancora caldo, tocca leggere comunicati come quelli dei Giovani Palestinesi in Italia, che salutavano lo “sbalorditivo successo”. I giovani palestinesi d’Italia. Non di Gaza o della Cisgiordania. D’Italia.
8 ottobre: «Nella giornata di ieri la resistenza di Gaza ha scritto una nuova pagina della storia palestinese. L’operazione “Alluvione di Al Aqsa” che ha portato alla distruzione del muro di filo spinato che imprigiona Gaza da 17 anni, alla presa di decine di colonie sioniste, al sequestro di più di 50 soldati, al sequestro di armamenti nemici e alla distruzione di carri armati e mitragliatrici, si inserisce in un quadro di lotta di liberazione e decolonizzazione della Palestina».
15 ottobre: «Sabato scorso abbiamo assistito a una operazione di liberazione senza precedenti. Le forze della resistenza palestinese hanno attaccato i territori occupati da Israele fin dal ’48, procedendo a liberare importanti aree di territorio. Hanno mostrato a tutto il mondo, ma soprattutto ai palestinesi stessi, che il colonialismo sionista crollerà. Hanno dimostrato a noi tutti che la libertà è, nonostante tutto, a porta di mano».

Resistenza, liberazione, libertà. Chi si è rifiutato di attribuire questi termini alla lotta per la vita degli ucraini come li trova applicati agli autori del massacro del 7 ottobre? Gli sembra che a loro calzino meglio?

Cosa vuoi che me ne importi se anche in tutte le case di Gaza c’è davvero (ma forse sarebbe meglio dire “c’era”) un calendario con la cartina della Palestina senza Israele, come sosteneva un post razzista molto condiviso dai fiancheggiatori di Netanyahu nelle scorse settimane? Non me ne frega niente. Non andrò mai a fare la morale a chi muore sotto le bombe, a fargli lezioni di bon ton, a spiegargli cosa deve o non deve fare per non schifare noi civilizzati col culo al caldo. La mia anima sta con lui o con lei, accanto al frigo dove quel calendario stava appeso o forse no. Così come stava a Mariupol’ accucciata in un angolo tra i calcinacci accanto al vecchio e al bambino terrorizzati, alla ragazza braccata dai soldati russi, al combattente nel mirino dei cecchini – che esibisse o no la toppa del Reggimento Azov.

Ma a chi sta con il culo al caldo non abbuonerò mai la mancanza di pietà.

6. Le foto strappate

La mattina del 24 novembre, mentre ero al lavoro, la mia compagna mi ha mandato questa mail.
«Oggi sono ripassata dal Castello Sforzesco e ho visto che molte foto degli ostaggi erano state strappate. Tornando a casa senza volerlo ho riflettuto (si sa, quando si muovono i piedi si muove tutto) e ho pensato che non sarei mai riuscita a strappare per nessun motivo la foto della faccia di un bambino con le finestre in mezzo ai denti che si è trovato in quella situazione, rapito e con i genitori ammazzati. Per farlo non bastano l’aggressività e le convinzioni politiche, ho capito in modo davvero lampante che ci vuole anche dell’odio e da dove possa realmente (e intendo realmente) venire quell’odio io non sono al momento in grado di capirlo. E non è neanche una questione di ragioni e di torti. Se vedessi appesi i visi dei bambini palestinesi morti nei bombardamenti israeliani non riuscirei parimenti a strapparli, neanche dopo aver letto la descrizione delle atrocità commesse nell’attacco. Quindi ammetto con me stessa che qui c’è davvero qualcosa che non capisco, e mi arrendo. Quanto a queste povere ragazze mutilate e smembrate e stuprate, penso che a confronto quello che ha subito Cristo sulla croce rischi di assomigliare a una favoletta per bambini.»

7. Domande, contraddizioni, limiti invalicabili

Infine è successo quello che continua a succedere: la distruzione di Gaza, migliaia di morti – e non mi si venga a dire che erano tutti militanti di Hamas.

Colpire Hamas è legittimo? Sì, secondo me è legittimo e anzi necessario.

Bombardare, fosse anche chirurgicamente, una città sovrappopolata, è un crimine di guerra? Sì.

Qual è la strategia del governo israeliano (se di strategia si può parlare, e non so se si possa)?

Cessate il fuoco: l’ho detto anch’io, nel momento in cui più grande era lo strazio.
Ma se per assurdo domani l’esercito israeliano si ritirasse, Hamas e la Jihad smetterebbero di lanciare razzi su Israele? Quanti razzi sparati da Gaza quotidianamente continuano a piovere sui civili israeliani?

Ma se anche Israele spianasse Gaza (come effettivamente sta facendo), otterrebbe forse pace e sicurezza?

Quanto pesa il sangue degli innocenti sulla bilancia della giustizia e dell’autodifesa?

Come fare a sormontare questa contraddizione? Non lo so. Non ci riesco.

Ma c’è un limite oltre il quale la mia coscienza non può andare. Ed è accettare l’uccisione di migliaia di persone per lo più incolpevoli in nome di qualsiasi ragione, fosse anche sulla carta la più umana e morale e ragionevole.
«E se la sofferenza de bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto», fa dire Dostoevskij a Ivan Karamazov.

Leggo che, se metto sullo stesso piano i bambini ebrei barbaramente trucidati dai nazisti e i bambini tedeschi morti durante i bombardamenti alleati, allora significa che sono in bancarotta morale.
Può darsi. Mentre cerco di capire se sono in bancarotta morale o no, ma soprattutto se questo aut aut abbia un senso (ahimè non ho studiato filosofia morale e temo che mi manchino gli strumenti necessari), mi siedo accanto ai bambini: sia quelli ebrei sia quelli ariani.

8. La faccia pietrificata di Wael Al-Dahdouh

Poi ho visto la faccia pietrificata di Wael Al-Dahdouh, giornalista palestinese di Al Jazeera, classe 1970, quasi un mio coetaneo. Ha appena scoperto, in diretta, che la sua famiglia è stata sterminata da un bombardamento israeliano. Ha appena perso la moglie, una figlia di sette anni, un figlio di quindici, un nipote. È la fine di ottobre. Il 7 gennaio perderà un altro figlio, più grande, giornalista anche lui, sempre per un bombardamento israeliano.

La faccia pietrificata di Wael Al-Dahdouh non mi esce dalla mente. Sullo schermo vedo me stesso. Istintivamente immagino cosa sta succedendo dietro quel viso, eppure, nello stesso tempo, non riesco nemmeno lontanamente a immaginarlo. Percepisco in modo confuso che, al suo posto, forse, cercherei di afferrare la prima arma a portata di mano e la rivolgerei contro di me.

9. I manichei che ti urlano “O con noi o traditore”

Intanto, senza spargimento di sangue ma con grande sperpero di parole e immagini, si affrontano sui social ogni giorno quelli delle bandiere palestinesi e quelli delle bandiere israeliane.

Molti dei primi non hanno speso una parola per ciò che si è consumato il 7 ottobre. In quei giorni, solo gattini, corsi di yoga e teatro, aperitivi all’aperto. Poi, con l’assedio di Gaza, si sono dati alla condivisione compulsiva di strazianti immagini di bambini palestinesi generate con l’intelligenza artificiale. Ma si sa che non sono antisemiti, solo antisionisti.

Molti dei secondi, dispensatori compulsivi di marchi d’infamia antisemita, hanno riabilitato le più bieche teorie sulla sostituzione etnica, con corredo di vignette islamofobe che un tempo vedevo comparire solo sui volantini leghisti o nei forum di suprematisti bianchi. Ma si sa che non sono razzisti, lo fanno solo per difendere i valori della democrazia e della libertà contro quei subumani…

10. L’antisemitismo non esiste, è solo antisionismo

Se maneggi con disinvoltura – magari limitandoti a qualche meme idiota, come se si trattasse di un gioco – il paragone tra la svastica e la stella di David, se te la cavi a buon mercato accontentandoti della solita vignetta sugli israeliani uguali alla Wehrmacht, stai compiendo un gesto certamente cretino e probabilmente antisemita, anche se credi in tutta coscienza di essere solo un antisionista (quale che sia il significato che attribuisci a questa parola-prezzemolo). La tua eventuale buona fede non giustifica una cosa che esorbita dai confini del cattivo gusto.
E più cerchi di convincermi che non è vero, che l’antisemitismo non esiste più se non in qualche frangia ultra-minoritaria e ininfluente di sociopatici neonazisti, più la mia pancia – prima ancora che il mio intelletto – si convince che l’antisemitismo è più vivo che mai. Tra i destroidi, tra i cittadini europei figli di seconda o terza generazione dell’immigrazione dai paesi musulmani, tra gli antimperialisti che si beano del loro immaginario staliniano e tra persone insospettabili, come un virus incistato in qualche organo interno e sempre pronto a slatentizzarsi.
E affiora anche dove meno te lo aspetteresti.

Mi permetto di riportare un breve passo di un piccolo libro che scrissi anni fa, Diario di un’insurrezione (Effigie 2012). Tratta di un fatterello risalente – ancora – al periodo immediatamente successivo all’11 settembre. Per la precisione una vignetta satirica che riprendeva una leggenda metropolitana assai diffusa dopo l’11 settembre, secondo cui migliaia di ebrei che lavoravano nelle Twin Towers non si erano presentati in ufficio la mattina degli attentati. Il sottinteso della diceria era ovvio: perché sapevano, perché il tutto era un complotto della CIA, del Mossad ecc.
«Sono i primi d’ottobre. Come ogni settimana, andando al lavoro passo in edicola a comprare il nuovo numero di Carta, la rivista che fa da crocevia e dazebao per il movimento. La sfoglio velocemente, mentre il metrò mi porta in Duomo. C’è un lungo intervento del subcomandante Marcos. S’intitola “La IV guerra mondiale è cominciata”. Nelle due pagine che precedono lo scritto di Marcos incontro alcune vignette. Si tratta de Il cuore, un settimanale satirico – chiamato chissà perché quasi come un suo più illustre predecessore – che non riesce a uscire in edicola ed è costretto a farsi ospitare a turno, in uno spazio ridotto, sulle riviste “amiche” di sinistra e di movimento. Quella settimana tocca per l’appunto a Carta (che, in una noticina, specifica: “Alle pagine 46 e 47 troverete due pagine di satira che non c’entrano niente col resto, come se fossero state prese di peso da un altro giornale. Infatti, è così”).
Una vignetta in basso a sinistra, a pagina 47, mi colpisce in modo particolare. Mostra le caricature di due ebrei: occhi vuoti e malvagi, dentatura da orco, naso adunco, barbetta caprina appuntita sul mento, boccolo a cavatappi e kippah. In pratica l’archetipo del giudeo subdolo, crudele e somaticamente degenerato secondo i canoni tradizionali dell’iconografia antisemita. Sopra, una didascalia recita: “Più di 4 mila impiegati alle twintowers [sic], ebrei americani o di origine israeliana, la mattina dell’11 settembre non si sono misteriosamente recati al lavoro… COME MAI???”.
Nel balloon, l’ebreo con i denti da orco dice: “Guardi, noi si doveva circoincidere [sic] il pupo e…”.
L’immagine viene risolta con questa battuta: “Circoincidenze, eh?”.»

Gli ebrei e gli israeliani. I due termini, si sa, da noi sono spesso intercambiabili.

Succedeva venti e passa anni fa, certo. Molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti. O no?

11. La felpa azzurra

Era pomeriggio e tornavo a piedi da piazza Duomo dopo il corteo milanese del 25 aprile.
Mentre camminavo, avevo davanti a me una coppia sulla quarantina, lei jeans e scarpe da tennis, lui giacca di velluto un po’ stazzonata, insomma potevano sembrare due newyorkesi a spasso per Manhattan dopo il cineforum. In mezzo a loro camminava – o meglio saltellava – un ragazzino sui dodici o tredici anni. Erano reduci come me dal corteo, l’ho capito perché a un certo punto hanno gettato in un cestino un volantino appallottolato uguale a quello che mi aveva piantato in mano il militante di non so più quale gruppuscolo aderente alla Quarta Internazionale.

Abbiamo camminato così, io dietro e loro davanti, per un buon quarto d’ora, e per tutto quel tempo ho spiato oziosamente quella famigliola. Mi stavano istintivamente simpatici. Avevano una camminata sciolta e chiacchieravano allegramente, lo intuivo dalle espressioni divertite che intravedevo ogni tanto quando si voltavano a guardarsi, così che potevo scorgerne le facce di profilo, il taglio delle bocche atteggiato a un sorriso. Anche il linguaggio del corpo era rivelatorio: rilassato, elastico.

È stata quella simpatia istintiva, all’inizio, a far sì che mi si stampassero nella memoria. A volte mi capita, quando incrocio una persona sconosciuta anche solo per poco e per qualche imperscrutabile motivo mi colpisce. Ricordo ancora gente intravista in via Torino nel novembre del 1992, ragazze con l’acne e la calzamaglia arcobaleno, uomini di mezza età con la chierica e le orecchie a sventola… Chissà perché proprio loro?

Poi è successo che il ragazzino si è sfilato la felpa e se l’è legata alla cintola. Era una felpa blu con stampati sopra il simbolo e il nome dell’Hashomer Hatzair, l’organizzazione giovanile internazionale ispirata al sionismo socialista. Gli “scout” ebraici, come si dice per semplificare.

Mi sono detto: Senz’altro hanno sfilato nello spezzone della Brigata Ebraica.

Eravamo più o meno all’altezza del Largo. L’ultimo tratto del Corso la felpa dell’Hashomer l’ha percorso sventolando baldanzosa a ogni falcata e saltello del ragazzino.
All’incrocio tra il viale alberato e la piazza dei tram, le nostre strade si sono divise.

Oggi non riesco a smettere di pensare alla spigliatezza con cui quel ragazzino esibiva la sua felpa. Alla noncuranza, alla naturalezza con cui sfoggiava quella scritta e quel simbolo.
Succedeva meno di sei mesi prima del massacro del 7 ottobre.

12. Islamofobi? Ma no, solo difensori della civiltà

Hanno grande successo tra i “proud friends of Israel” le immagini di fedeli musulmani accucciati sui marciapiedi, in preghiera, o di una folla in abiti da beduini che inveisce con aria inferocita – non è dato sapere contro cosa, la foto non ha didascalie, ma ovviamente non ce n’è bisogno: sarà senz’altro contro l’Occidente democratico, civilizzato e laico.
Tra loro persino i deliri paranoici e islamofobi sull’Eurabia improvvisamente tornano buoni, come se non fossero l’opposto speculare e identico dei vecchi deliri nazisti sulla piovra giudaica mondiale. Persino le più assurde e ributtanti teorie cospirazioniste sul piano Kalergi e spazzatura simile.

A loro vorrei chiedere: “Dov’era l’IDF il 7 ottobre?”. A difendere i coloni, il loro diritto a perseguitare i palestinesi della Cisgiordania, a sputargli addosso, a sparargli addosso, a mettere a ferro e fuoco i loro villaggi. Ecco dov’era. A difendere quel bacino elettorale dell’estrema destra israeliana che è come un cancro metastatico e che da decenni, nutrito dalla destra fascista israeliana, divora case, territori, vite e ogni possibilità di pacificazione.

Sì, quando sento le ignobili parole di certi esponenti della destra fascista israeliana, quando li sento ventilare l’atomica come piccoli Medvedev qualunque, vorrei poterli vomitare dalla mia bocca.

I sostenitori di Israele sono raggruppamento eterogeneo al cui interno si trovano posizioni spesso lontanissime. Alcuni di loro, da mesi, martellano quotidianamente sulla disumanità e la ferocia di Hamas (il che è fuor di dubbio) spesso finendo per attribuire la colpa dei massacri all’intero popolo palestinese e dunque de facto esprimendo un concetto di puro e semplice razzismo.
Ma non dicono una parola sull’espansione delle colonie illegali, sull’occupazione delle terre palestinesi in Cisgiordania, sulle violenze dei coloni.
Mi piacerebbe capire cosa pensano dell’involuzione autoritaria dello Stato di Israele. Negano che ci sia, o che sia un’involuzione? La vedono? La approvano? È per loro un male minore o addirittura l’unica salvezza di Israele?
Che limite danno al concetto di autodifesa? Cosa sono disposti ad accettare in suo nome?
Quanta legittimità ha il concetto di autodifesa preventiva?
Quanto alimenta il circolo vizioso della violenza?

L’unica democrazia del Medioriente. D’accordo. Ma non basta dire “democrazia” perché magicamente tutto diventi lecito e giusto. Ci sono democrazie che votano leggi per deportare gli immigrati. Ci sono democrazie che mandano democraticamente al potere uomini, partiti e movimenti autoritari.
I governi israeliani di diverso colore politico che nel corso degli anni hanno più o meno apertamente promosso la progressiva e massiccia colonizzazione delle terre palestinesi sono stati eletti democraticamente, avendo spesso nei loro programmi elettorali l’ampliamento e il riconoscimento degli insediamenti illegali. Cosa dovremmo dedurne, quindi? Che tutto il popolo israeliano è complice, come a parti rovesciate stanno dicendo dei palestinesi?

Guardo un servizio giornalistico sul rabbino israeliano Arik Ascherman, premio Gandhi per la Pace 2011, che aiuta i contadini palestinesi della Cisgiordania contro gli abusi dei coloni. Pacifista, progressista. Più volte malmenato dai coloni, gira con il giubbotto antiproiettile perché rischia ogni volta la vita.
Vorrei sapere: anche lui è il classico ebreo che odia sé stesso?

Poi leggo la biografia di Bezalel Smotrich, ministro del governo Netanyahu: organizzatore di iniziative pubbliche contro il movimento LGBT, sostenitore dell’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, dice di sé: “Sono un fascista omofobo”. Molto religioso, si oppone alla creazione di uno Stato palestinese e nega l’esistenza del popolo palestinese.
Decisamente una perfetta epitome dell’Occidente laico, democratico e civilizzato.

13. La ragazza col velo

Conosco per via indiretta una ragazza, figlia di immigrati di fede musulmana. Presto compirà sedici anni. Studia, ma avendo molti fratelli più piccoli le capita spesso di fargli da seconda madre. Indossa il velo, è credente, magari lo è con fervore o magari invece come lo ero io quando andavo all’oratorio, per consuetudine e tradizione, chissà. Sogna di viaggiare, di avere una vita piena, libera, diversamente da molte delle sue coetanee italiane – per le quali è poco più che un fantasma – è interessata da ciò che succede nel mondo.

Ogni volta che sento parlare di arabi o di musulmani (i due termini, si sa, da noi sono spesso intercambiabili) come di un branco di mentecatti fanatici, di bestie ignoranti bloccate in un medioevo mentale – discorsi che un tempo ingenuamente credevo appannaggio dei fascioleghisti e che invece ho scoperto essere diffusi anche tra i laici illuminati illuministi democratici progressisti – penso a quella ragazza.

14. Contro l’internazionale della morte, con l’internazionale della vita

Io sono al sicuro nella mia porzione di mondo. Non sono né israeliano né palestinese. Che diritto ho di giudicare la rabbia e l’odio degli uni e degli altri?

Forse posso soltanto cercare di recuperare lucidità, di informarmi, di ragionare con calma, visto che la mia posizione privilegiata me lo permette.

Posso tentare di individuare dei punti fermi nel mio stare disagevolmente in questa specie di terremoto globale che tutto scuote e scardina e rovescia.

Non metterò il mio corpo al servizio di manifestazioni dalla solidarietà selettiva o intermittente.
Non mi mescolerò con chi non ha speso una parola di dolore per i civili massacrati il 7 ottobre.
Non siederò al fianco di chi nega, relativizza, giustifica o esalta quell’orrore.
Non avrò nulla a che fare con chi festeggia i bombardamenti sulle città e sulle case dei palestinesi.
Non mi unirò a chi sotto la maschera dei valori occidentali chiama a nuove crociate.
Non accetterò alcuna idea razzista o suprematista.

Cercherò sempre di non farmi fottere dal contesto al punto tale da non vedere più il testo.
Cercherò di studiare.
Cercherò di ascoltare.
Cercherò di essere sempre onesto nell’ammettere le mie contraddizioni e i miei limiti.
Cercherò di far sì che le mie contraddizioni non diventino una giustificazione all’omertà, all’ignavia, all’opportunismo.

Starò sempre con chi subisce la violenza.
Con chi subisce violenza eppure si ostina a non perdere la propria umanità.
Con chi costruisce ponti.
Con chi non usa il “ma”.
Con chi pratica l’igiene della parola, che è anche igiene del pensiero.
Con i civili israeliani.
Con i civili palestinesi.
Con gli ostaggi di Hamas.
Con Wael Al-Dahdouh.
Con chi in Israele si batte contro la sua deriva teocratica, reazionaria e fascista.
Con chi in Palestina si batte per un futuro democratico e libero dal doppio giogo dell’occupazione e dell’oscurantismo religioso.
Con gli ebrei che ovunque nel mondo rivivono l’incubo della persecuzione.
Con gli arabi e con i musulmani che in Occidente vivono e lavorano – spesso come schiavi salariati – subendo disprezzo e odio razzista.

Non starò con Netanyahu, con i suoi coloni e i suoi ministri genocidari.
Non starò con Hamas e la Jihad islamica, con l’Iran e Nasrallah.
Non starò con i criminali psicopatici che reggono le sorti del mondo.

Contro l’internazionale della morte, con l’internazionale della vita.

15. Palestina libera, ma libera davvero

Palestina libera, ma libera davvero.
Libera dall’occupazione. Dai fascisti israeliani. Dai coloni che rubano terre, picchiano, sparano, ammazzano.
Libera dalla morte per bombe e cecchini.
Libera dal dover piangere i suoi figli. Il 70 per cento dei gazawi uccisi in questi due mesi sono donne e bambini. Fossero anche lo zero virgola sette, sarebbe lo stesso inaccettabile.
Libera da Hamas, dalla Jihad islamica, da Hezbollah. Libera da tutti i suoi orribili e feroci occupanti interni.
Libera dai suoi presunti amici, odiatori di ebrei e lecchini di tiranni.
Libera di scegliere il proprio destino autonomamente e democraticamente.
Così libera da poter finanche, un giorno, fare i conti con i propri errori e i propri orrori – come molte nazioni che si credono civili non hanno mai fatto.

Palestina libera.

Libera anche la gente di Israele. Libera dalla paura dei pogrom e dei razzi. Libera dai pazzi sanguinari che l’hanno spinta nel baratro.

E liberi anche gli ostaggi del 7 ottobre. Che tornino a casa, dai loro cari, e che possano un giorno guarire dalle ferite del corpo e dell’anima.

Possano tutti coloro che sono caduti innocenti in questa mostruosa guerra riposare in pace nel paradiso a cui anelavano.

(Novembre 2023 – gennaio 2024)

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El so fioeu el gh’ha l’asma, sciura

Ogni boccata d’aria è un premio
per la mia gara solitaria
il fischio dei bronchi
un virtuosismo incompreso
diventerò un maestro
di canto anaerobico mi bastano
le mie due canne d’organo
un po’ di tenerezza eventualmente
una pompetta di salbutamolo

(2006, sempre attuale)

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Gen X 2

Poveri stronzi siamo, amici miei, tutti fottuti noi del Settantatré, perfettamente al centro ovvero nel buco del culo della Generazione X, la prima puntata di Goldrake sul Minerva in bianco e nero, in cucina, odore di minestrone, tavolo di formica, armadietti economici con inserti double face arancioni/marroni acquistati nel 1971 in un mobilificio di Cassolnovo, fatto sogno in cui ce ne stavamo tutti seduti a fissare lo schermo e le manine di un bambino africano uscivano da sotto la televisione e battevano un ritmo indiavolato. Poi sempre ammalato, le prozie cassolesi ospiti una domenica, film dell’orrore in b/n con uomini salamandra, non aver paura, non vedi che si vede la cerniera? Sono solo tute di gomma, eppure da quel momento per molto tempo un uomo salamandra mi avrebbe fatto la posta di notte appena spenta la luce nel vano tra la porta e l’armadio, prima che nell’83 arrivasse Poltergeist a dare nuove forme al terrore, stavolta nel vano tra il letto e la libreria, dove tenevo la radiolina per ascoltare da sotto le coperte l’Inter perdere la partita di Coppa contro il Real Madrid, la stessa radiolina bianca che tenevo incollata all’orecchio la domenica dopo il catechismo aggirandomi solitario tra il bar dell’oratorio e il campo a 6 per ascoltare da sotto il cappuccio di lana marrone fatto a maglia da mia nonna l’Inter perdere in campionato. Una sera prima di cena entrando in cucina vidi Kyashan il ragazzo androide, era la fine dell’80, nella casa nuova di via Einstein. Una sera mio papà mi domandò se volevo andare a vedere l’incendio del Balòn de San Peder o se preferivo restare a casa a vedere Ken Falco, e io avevo paura di perdermi la puntata perché non sapevo mai se sarebbe stata quella in cui modificavano il motore rendendolo più grosso e potente, però alla fine andai a vedere il Balòn in fiamme e non mi annoiai. I lavoretti da portare a scuola il giorno dopo. Presepe di polistirolo, presepe con mollette di legno. Sognavo il possesso di tutta la schiera luccicante e magnetica dei Micronauti, avevo solo Force Commander, ma desideravo Baron Karza e Red Falcon sopra ogni altra cosa nell’universo. Red Falcon era l’apice della creazione. E una mattina in seconda elementare la compagna con i capelli neri e la pelle bianca venne a dirmi che aveva scritto una lettera d’amore a Joe, il pilota numero uno del Gattiger. Alla radio Amorureux solitaires. Asma bronchiale. Il compagno stronzo mi giurò che a casa aveva un Gattiger componibile completo grande così. Il compagno bugiardo mi giurò che a casa aveva il Gordian completo con i quattro robot a incastro alto così, tutti avevano le cose che amavo di più tranne me. Il cugino 1 più grande aveva un casco da motociclista che desideravo con ardore, il cugino 2 più grande un poster erotico in camera da letto, la sorella 1 delle tre bionde un poster di Miguel Bosé androgino in costume glitterato, giocavamo a pallavolo, cadevamo sull’erba, la sorella 2 mi si sdraiava sopra e mi chiedeva se ci saremmo sposati. Villette di periferia, cognomi veneti, giardini sul retro con altalene imbottite, taverne, orticelli. Supercar il sabato sera. Il Drive In. Enrico Beruschi con le Adidas Tampico. Il figlio 1 degli amici di famiglia aveva il castello di Grayskull e io lo desideravo ardentemente, mi feci regalare per il mio compleanno Skeletor e Merman ma io volevo il castello di Grayskull e tutto quanto l’apparato. E poi le acconciature, le ragazze con la frangetta, gli orecchini di plastica celeste, il fard, i synth, la batteria elettronica, alla radio gli Spandau Ballet e i Tears For Fears. L’Aids era un articolo dell’Espresso letto in preda a panico crescente nella sala d’attesa dell’isitituto Fleming prima di farmi fare l’iniezione settimanale di vaccino, il negozio di ottica e dischi esponeva in vetrina i dischi degli Iron Maiden, spiavo le copertine passandoci davanti con spavento, pensando che fossero squarci veritieri sul mondo infernale di mostri antropofagi e zombie putrefatti che esisteva appena oltre l’ostia sottile che faceva da muraglia al mondo di qua. L’eroina disseminava siringhe dappertutto, nei parchi, sui marciapiedi, nei canaletti di scolo. L’odore plasticoso delle patatine nei sacchetti in cui compagni di classe tuffavano le dita unte e leccate nei sacchetti per pescare la sorpresina gommosa, il robotttino, la macchinina, la manina. Le sorprese del Mulino Bianco, l’albo annuale della Formula 1, il Giornalino tutte le domeniche dopo la messa delle dieci all’edicolina nel chiostro di Santa Maria Nuova, Conoscere insieme, Pinky, Il capitano Rogers. Io e la Sara facevamo collezione di gomme profumate, il Fulvio inghiottiva tappi di pennarello, il parrucchiere mi tagliava i capelli a spazzola secondo le istruzioni fornite da mia madre, niente più caschetto, i Settanta erano finiti da un pezzo, anzi in aggiunta un leggero tocco di gel per prevenire la calvizie. Alla radio Rick Astley, i Righeira. La festa delle medie a casa di una compagna, il gioco della bottiglia, tutti più sciolti e brillanti di me ballavano i lenti, chiazze di Fanta sulla tovaglietta di plastica, sul registratore una cassetta con i Duran Duran, ti piace di più Simon Le Bon, John Taylor o Nick Rhodes? Ti piace più Madonna o Patsy Kensit? Ti piace di più Karma Chameleon o Time After Time? E ad aprile arrivò la primavera di Cernobyl’.

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Gen X 1

Va di moda parlare di generazioni, spopolano su TikTok i video in cui si confrontano gli atteggiamenti tipici delle varie generazioni, partendo dai boomer per arrivare alla Generazione Z. Ammesso che queste categorizzazioni e generalizzazioni sociologiche abbiano un senso al di là del gioco, vorrei provare a raccontare a modo mio quella che dovrebbe essere la mia generazione: in quanto nato nel 1973, avendo raggiunto l’estate scorsa il mezzo secolo di età e dunque trovandomi nella condizione di fare bilanci, metterò qui un po’ di cose sulla famigerata Generazione X.
Comincio con una poesiola che ho scritto qualche anno fa.

Come membro seppure atipico
della Generazione X
nutrito a cartoni animati
sono cresciuto con l’idea
che solo potesse salvare
il mondo ed estirpare il male
un robottone giapponese –
viene da lì il mio nichilismo

E come tutti nei Novanta
mettevo le Adidas Gazelle
come in uno spot con Flat Eric
o camicione di flanella
nell’epoca di transizione
da Videomusic a MTV
benché al Nirvana preferissi
Smashing Pumpkins e Radiohead

Ora incrocio due volte all’anno
i miei coscritti color fungo
quando si fa festa in paese
portano i figli sulle giostre
girano in abiti borghesi
come militari in congedo
reduci da nessuna guerra
persi in memorie plasticose

(8 giugno 2020)

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Storia di un capodanno

Questa è la breve e veritiera storia di un capodanno di tanti anni fa. C’è questo ragazzo, che all’epoca ha diciannove anni. Oggi ne avrà molti di più, non sarà più un ragazzo, ma da qualche parte sul suo corpo, per quanto invisibile, porterà ancora un segno, una piccola cicatrice.

La storia comincia qualche giorno prima. Il ragazzo sta attraversando un periodo che il pudore e la lingua di legno della rispettabilità preferiscono definire genericamente complicato. Non diremo che è distimico, bipolare o affetto da una forma di depressione di entità incerta, perché non ci sono diagnosi certe. Nessuno lo ha visitato, a nessuno è venuto in mente di consigliargli un colloquio con un esperto, e del resto il pensiero di farlo non lo sfiora nemmeno. Ci limiteremo dunque a dire che vive un momento difficile. Sono anni di passaggio, di cambiamenti, e questi cambiamenti a volte gli sembrano sconvolgenti. La sua vita familiare è un casino: non serve scendere in dettagli, basti sapere che è lì, tra quelle quattro mura, che il suo disagio psichico affonda molte delle sue radici, ed è lì che prospera e cresce, sempre più pesante, sempre più ingombrante.

Da adolescente era riuscito a costruirsi una specie di famiglia surrogata in parrocchia. Ma la strada dorata dei sedici anni l’ha abbandonata, repentinamente, un paio di anni prima. Così ha perso quasi tutte le amicizie dell’adolescenza, che pure aveva creduto eterne, ed è rimasto di nuovo solo con i suoi casini familiari. Ha cercato altre case, altre amicizie, ha creduto di averle trovate in certi compagni di scuola. Ha cominciato a fantasticare di una vita da bohémien o da beatnik, con lui e gli altri sempre insieme, alla maniera degli eroi di Sulla strada o come Dante, Guido e Lapo sulla barca. Ma da un po’ gli sembra i suoi amici lo tengano a distanza. Uno di loro si è anche lasciato scappare una mezza frase, a mezza voce: sei troppo deprimente, sai che voglia di frequentarti.

Si tenga presente che questa storia si svolge all’inizio degli anni Novanta. I cellulari sono grosse scatole costose e riservate ai ricchi, non esiste Internet, non ci sono social network o servizi di messaggistica istantanea. Solo il telefono e il citofono. E spesso, la sera, il telefono resta silenzioso, proprio come in una vecchia canzone di Venditti. Lui a volte esce ugualmente e vaga da solo per le strade semideserte del paese di provincia in cui vive. Di solito gira in bici, fuma una o due sigarette, torna a casa all’ora in cui di solito i suoi familiari dormono. Si siede in salotto, accende la tele a volume bassissimo, guarda certi vecchi film che la programmazione notturna gli offre a caso. Qualche volta va persino a Milano, col treno, solo per potersi dire di essere riuscito a evadere: due passi frettolosi tra la stazione e la Darsena prima di tornare a prendere l’ultimo treno o l’autobus a Romolo.

L’anno volge al termine. Sono gli ultimi giorni. La gente attorno a lui organizza cene e cenoni, organizza feste, festicciole, indianate, riceve inviti. A lui basterebbe una casa accogliente, un po’ di vino e un po’ di erba da fumare insieme ai suoi amici angelici ascoltando della buona musica o chiacchierando. Gli basterebbe parlare di rock psichedelico, di Dostoevskij, di letteratura beat.

Ma la realtà è che niente di tutto ciò è in programma. Man mano che si avvicina l’ultimo dell’anno, è sempre più sicuro in cuor suo che trascorrerà quella notte da solo, in casa sua. Teme che i suoi gli domandino perché non esce. Non sa cosa risponderebbe, dovrebbe inventarsi una balla o ammalarsi in tempo per avere una scusa inattaccabile. Altre volte gli è capitato di ammalarsi la notte di capodanno, ma questo accadeva quando non sarebbe dovuto succedere, quando aveva ancora i vecchi amici e feste a cui partecipare.

Poi, quasi all’ultimo momento, succede che una coppia di amici – due dei suoi amici più cari, quelli che ama come fratelli e sorelle d’elezione – lo invitino a trascorrere il capodanno con loro. Hanno una cena a casa di un’amica, ma appena si liberano passeranno da casa sua a prenderlo.

Il ragazzo è contento. Non è quello che sognava, ma ci si avvicina, e in fondo è più di quanto sperasse.

La sera del 31 dicembre, il ragazzo si mette i suoi vestiti più belli, quelli che nella sua testa lo fanno assomigliare a un giovane Kerouac un po’ rimbaudiano. Mangia con i genitori, in cucina, cercando di estraniare la sua mente dalle grida, dagli insulti, dai litigi. Bisogna dire che quella cena è l’ultima cosa che, nella sua memoria, ricorda con una certa precisione: da quel momento in poi, i suoi ricordi si fanno di ora in ora più nebulosi. Alla fine, è tutto un vuoto nero che a posteriori dovrà riempire con semplici supposizioni. Di sicuro non esce, perché i suoi amici angelici potrebbero passare da un minuto all’altro. Perciò probabilmente comincia a trascinarsi dalla camera al salotto. Probabilmente sfoglia un libro, che sarà stato forse il Diario Beat di Ginsberg edito da Newton Compton. Forse riprende in mano per l’ennesima volta in quaderni ad anelli con le sue poesie, le rilegge e come sempre non riesce a capire se siano belle o schifose. Forse guarda un po’ di tele con suo padre. Forse litiga brevemente con sua madre, mentre lei sciorina una serie di maledizioni contro gli avi e la sorte cagna che le hanno regalato quella vita di merda. Non ricorderà assolutamente dove siano in tutto questo suo fratello e sua sorella. Sua sorella ha diciassette anni, è probabile che a un certo punto esca per andare a festeggiare con le amiche, magari all’oratorio. Suo fratello ne ha undici, quindi presumibilmente avrà guardato la tele con lui e suo padre, prima di andarsene a letto. In futuro non ricorderà più con precisione se nella sua famiglia si usasse attendere la mezzanotte per stappare lo spumante: forse no.

La sera diventa tarda sera. Ecco che comincia la voragine della memoria. Cosa succede, in quelle ore, quando finalmente le voci e le grida si sono placate e gli altri sono andati a dormire o a festeggiare? A mezzanotte, mentre fuori cominciano a sentirsi gli scoppi dei petardi, il pensiero che nessuno passerà più a prenderlo assume la consistenza e l’odore del catrame. Man mano che il tempo passa, il pensiero strutturato cede il passo a una disperazione elementare. Il ragazzo sprofonda in quella gora di tristezza infinita, senza appigli, fino in fondo, fino all’acqua morta, lì dove ci sono solo fetore e viscidume agglutinato.

Forse a una certa ora suo padre emerge in pigiama dal buio dell’anticamera e gli domanda perché è ancora lì, e lui forse risponde “Sono in ritardo ma adesso arrivano”. Forse: perché anche questo non è un ricordo, solo una specie di ameba di ricordo, probabilmente apocrifa.

Poi sono forse le due, o le tre, o più probabilmente le quattro. Il ragazzo è ancora in cucina, e l’uomo che sarà non sa più dire cosa stia facendo, se si limiti a starsene seduto con aria ebete o se si sia dato una qualche occupazione casuale, tipo ingoiare compulsivamente sfoglie al cioccolato primo prezzo, biscotti, pezzi di pane. È allora che il citofono suona. Il ragazzo corre a rispondere. Alza la cornetta. Sono loro, i suoi ex amici angelici. Sì, si sono ricordati dell’appuntamento, semplicemente hanno fatto tardi. Il ragazzo scende, sale in macchina con loro, cerca di esibire la sua faccia più tranquilla e pacifica: non c’è problema, succede, dai. Vanno a casa di lei. Si siedono davanti a un freddo tavolino di vetro. Aprono una bottiglia. Forse fumano una mezza canna. Le chiacchiere girano a vuoto. Dopo un po’ è chiaramente ora di salutarsi.

E questa, in sostanza, è la fine della storia. Come si vede, è una storia noiosa, in cui non succede niente di eccezionale. Tuttavia, il ragazzo porterà con sé quella nottata come una piaga nascosta. Gli tornerà in mente ogni anno, a capodanno, come una ferita inferta con una lama di Morgul che non si risana mai del tutto, ma non ne parlerà mai con nessuno. Sarà a lungo il suo vergognoso segreto. Solo dopo più di trent’anni si deciderà a tradurla in parole scritte. Succederà quando ormai il dolore sarà un ricordo sbiadito, una breve fitta che si può fingere di ignorare, che non impedisce più i movimenti.

Quanto alla morale, non ce n’è alcuna, e il seguito è facile da riassumere. Il ragazzo ne ricaverà da subito un odio irriducibile per i capodanni, ma non ne trarrà alcun insegnamento a breve termine. Gli serviranno molti anni, e molta fatica, per imparare a non lasciarsi più umiliare così, a non barattare più la propria dignità per un simulacro di affetto, a preferire la solitudine all’elemosina. Per molto tempo ancora, prima che diventi un uomo, sceglierà di mangiare la merda pur di non restare a stomaco vuoto. Oggi può darsi che non lo faccia più. E in questo risiede forse l’unica perlina partorita da quella conchiglia putrefatta.

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Il 2024 impossibile

Poiché dell’anno che viene ho paura, penso che bisognerebbe giocare al rialzo, far impazzire la posta, chiedere tutto, chiedere l’impossibile, e chiederlo con quella disperazione così totale che per forza ti costringe a sperare. Perché cos’è la speranza se non il rovesciamento inevitabile della disperazione che tutto il resto ha divorato? Dicono che i buchi neri siano al capo opposto della singolarità buchi bianchi, da cui scaturiscono nuovi universi.

Perciò al nuovo anno chiederò che tutti gli amori siano corrisposti.
Che tutti abbiano un tetto e del buon cibo.
Che si estingua la sofferenza inutile.
Che i potenti sperimentino l’umiltà, imparino il senso del limite, diventino saggi.
Che il potere si autodistrugga.
Che gli oppressi siano liberi.
Che la terra inghiotta i carnefici, gli oppressori, i criminali, i tiranni.
Che regni la pace, ma non senza giustizia.
Che chi è malato guarisca.
Che chi muore muoia sereno, mentre il sole lo accarezza, circondato dall’affetto dei suoi cari.

Sì, non chiederò la fine della morte, perché di fronte alla morte neppure la magia funziona. Ma che alla fine ci si ritrovi tutti in un luogo di eterna beatitudine, fuori dal tempo, dove avere il tempo per ricostruire una fitta trama di abbracci e rincontri. Che tutti coloro che si erano perduti si ritrovino per sempre, uomini, cani, gatti, criceti, balene, alberi.
Non chiederò che il male e il dolore siano redenti, perché la sofferenza non può essere redenta. Ma che alla fine, al cospetto di Dio, riusciamo a essere più buoni di Lui, e a non restituirgli il biglietto di ingresso.

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